In Sud America dopo più di una decade che ha visto la corrente socialista alla leadership di molti Paesi, dal 2015 in poi abbiamo osservato una drastica virata a destra del favore elettorale. Prima Argentina poi Cile e Brasile. Nel mezzo le vicissitudini peruviane al limite con il ritorno di un Fujimori al governo e poi la spaccatura interna ad Alianza Pais in Ecuador dove Lenin Moreno ha inteso rinnegare l’operato del suo predecessore e in fine il Paraguay, paese che conferma la propria propensione al modello neoliberista. Ma se da un lato si assiste ad una marcata riprogrammazione socio-politica per ottemperare al desiderio di rivalsa nei confronti del passato più prossimo, avviene ben altro, ovvero si assiste ad una sorta di resa dei conti tra il nuovo e il vecchio. Appare quasi che la nuova leadership conservi un desiderio innato di debellare il paese dalla precedente oligarchia politica. Una pulizia politica che attualizzata non trova più (per fortuna) il proprio realizzarsi con l’eliminazione fisica del rivale, ma si affida a ciò che oggi, nell’opinione pubblica internazionale e nazionale, è ammessa e plausibile: l’attuazione della legge. E per legge quindi fioriscono processi ad ogni latitudine andando a colpire l’establishment politica socialista. Parallelamente all’uscita di scena dei grandi politici carismatici del socialismo latinoamericano, si attivano inchieste e processi a loro carico. A prescindere dalla giustezza o meno delle accuse, che solo regolari processi sapranno comprovare o smentire, non può non colpire la pressoché unanime condanna di tutti i leader socialisti più rappresentativi di questo inizio XXI secolo latinoamericano.
In Brasile forse abbiamo visto più di ogni altro paese, dapprima la destituzione di Dilma Rousseff e a seguire la detonazione di un ripristino della leadership lulista il tutto mediante l’imputazione di diversi reati alle singole figure politiche. Dilma Rouseff accusata nel 2016 di aver manipolato i bilanci statali per gli anni 2014 e 2015 ha pagato con l’impeachment e la destituzione dalla carica presidenziale. Un allontanamento quasi contemporaneo all’avvio di un lungo processo che coinvolge e travolge Lula da Silva ovvero il leader massimo del movimento socialista brasiliano e designato al ritorno alla guida del paese. Corruzione e riciclaggio è quanto si evince dalle accuse mosse dalla procura federale di San Paolo. Proprio Lula candidato a riportare il Partito dei Lavoratori alla guida del paese, finisce con lo sprofondare nei baratri giudiziari fino alla detenzione precauzionale ad oggi in essere. Detenzione che per altro ha messo fuori dai giochi elettorali lo stesso Lula ed ha spianato la strada all’ascesa di Bolsonaro alla presidenza del paese. Nuovo governo regolarmente eletto e ripristino di una visione liberista, ma non solo. La presidenza di Bolsonaro potrebbe avere anche un effetto negativo sul processo di Lula consacrandone la definitiva dipartita politica. Inoltre non è da escludersi che possano emergere nuove inchieste federali atte a demolire definitivamente la già precaria struttura del PT.
In Argentina si avvicinano le elezioni del 2019 e coincidenza vuole che tornano all’ordine del giorno le accuse di corruzione nei confronti di Cristina Fernadez da Kirchner. L’ex presidentessa socialista con la non candidabilità nelle elezioni del 2015 ha di fatto lasciato uno spiraglio alla destra politica dopo 12 anni di kirchnerismo. Abile Macri a cogliere l’opportunità e abile lo stesso ad inasprire il dialogo con l’opposizione tanto da ribaltarne completamente ogni programmazione economica e sociale fino, in ordine cronologico, al ripristino di un pericoloso sodalizio tra Buenos Aires e il FMI. Ma le elezioni del 2019 riportano all’ordine del giorno l’ombra di una Cristina Kirchner ancora leader e nuovamente candidabile a meno ché non intervenga una sentenza del tribunale in opposizione a ciò.
In Ecuador invece si consuma un vero e proprio dramma politico interno al partito vincitore delle elezioni 2017. Elezioni vinte in un’ottica di continuità che voleva una successione tra Rafael Correa e Lenin Moreno senza alcun impatto sul proseguo del programma economico-politico. La realtà ha visto invece una vera e propria spaccatura del partito di maggioranza con la corrente correista portata ai margini di un progetto che ha subito una forte sterzata verso un più occidentale liberismo. Ma non basta. La netta contrapposizione tra presente e passato si è presto tradotta nell’apertura di un’inchiesta ai danni dell’ex presidente accusato di essere il mandante del sequestro in Colombia del politico suo oppositore, Fernando Balda (2012). Ovviamente Correa respinge le accuse e al momento si nega ad un regolare processo in Ecuador, rimanendo in Belgio in attesa di un quadro chiaro sulla vicenda. Una situazione che non aiuta di certo Correa in un’eventuale ascesa politica nelle elezioni presidenziali del 2021. Ma non è tutto: un’altra questione resta aperta e che rappresenta un pesante e simbolico lascito della precedente amministrazione: il caso Assange. Il giornalista fondatore di WikiLeaks resta ospite dell’ambasciata ecuadoriana a Londra per sottrarsi an processo probabilmente farsa atto a portare al silenzio l’agenzia che ha divulgato verità scomode appartenenti ai principali governi della terra. Ma con la presidenza di Moreno le libertà di Assange si sono di moto ridotte all’interno dell’ambasciata e la sua posizione di “avente asilo” se da un lato viene ancora garantita, in vero è oggetto di un continuo dibattito e analisi. Le probabilità sono che il governo ecuadoriano stia lavorando ad un accordo favorevole con il quale concedere il suo ospite alle autorità londinesi, svedesi e statunitensi.
In Colombia il ritorno degli uribisti alla leadership del paese con Duque non fa che riportare all’ordine del giorno l’antagonismo tra questi e le FARC. Una contrapposizione che di fatto mette in discussione l’accordo di pace siglato tra la guerriglia e il precedente governo di Santos. Una pace tanto lunga quanto attesa dal popolo che tuttavia vede Uribe e i suoi pronti alla resa dei conti nei confronti di guerriglieri ormai disarmati e quindi vulnerabili al contro processo di pace inteso da un’oligarchia mai incline al dialogo con i propri oppositori.
Infine vi è la complessa crisi Venezuelana che viene esposta e dibattuta lontano da Caracas. Nei confronti di Maduro e del suo governo socialista (o meglio detto chavista) è in corso un intenso dibattito internazionale per il quale tra sanzioni unilaterali (Europa e Stati Uniti) e sospensioni dall’interazione regionale (il Mercosur ha sospeso temporaneamente Caracas tra i paesi membri) l’idea è quella di una non democraticità dell’attuale governo. Per Maduro è come essere da oltre due anni, dinanzi a un gran giurì internazionale dove l’opinione pubblica del globo viene costantemente indottrinata mediante i media e l’OSA il tribunale chiamato a pronunciarsi nei confronti di Caracas. Il governo venezuelano non è immune da colpe ed anzi più volte è finito quasi con il giustificare l’antagonismo esterno. Ma dall’altro lato occorre considerare che il Venezuela resta oggi l’ultimo baluardo di quel socialismo iniziato proprio a Caracas nel 1998 con Hugo Chavez. L’ultimo baluardo socialista che per altro resiste nel paese in cui sono presenti le riserve petrolifere più importanti del pianeta (se le consideriamo per singolo stato sovrano) e pertanto lo stesso schieramento politico occlude i flussi energetici dal Venezuela verso il sistema del libero commercio per il quale le redini sono saldamente nelle mani di Washinton. Tanti quindi gli interessi in gioco e tanti anche gli errori commessi da un governo (quello venezuelano) che non ha ancora saputo riemergere dal sogno chavista fermatosi nel 2013. Il Venezuela ad oggi ha saputo solo autoescludersi dall’OSA senza comprendere come ciò non abbia alcun effetto sul proseguo del processo internazionale che lo vede come unico imputato.
In generale quindi possiamo ben notare come in Sud America appaia in atto una epurazione politica con il nuovo che cerca di estirpare quanto di socialista sia proliferato nel continente negli ultimi vent’anni. Progetti e programmi di indipendentismo (dalla Dottrina Monroe) del XXI secolo sembrano ormai accantonati (per il momento) e se la storia ha assolto un uomo simbolo dell’antimperialismo latinoamericano, resta da capire se siamo dinanzi a un coincidenza nel vedere incriminati contemporaneamente tutti i leader socialisti più carismatici del continente e in tal caso, occorrerà vedere chi è realmente innocente e chi di quella storia (più precisamente parte di essa) non ha saputo onorarne l’eredità culturale e politica.
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