Viaggio nell'America di Trump a un anno dal voto

Tre novembre 2020: un anno esatto all’ennesimo appuntamento con la storia. Quella che Donald Trump, oramai mille giorni fa, ha stravolto, cambiandola per sempre e cambiando il volto di un Paese che mezza America e mezzo mondo faticano a riconoscere. C’è chi, però, nella nuova vecchia visione del tycoon non soltanto si riconosce (eccome), ma addirittura si proietta con una foga ancora maggiore.

Nord-est degli Usa, la scena è quella del New Hampshire: uno Stato di contadini, operai e piccoli imprenditori. Una realtà geograficamente vicina, ma politicamente lontanissima dalla New York cui, troppo spesso, si rivolgono attenzioni e sguardi quasi come fosse l’unico riferimento di un universo a stelle e strisce che è invece variegato e vasto. Mike fa il meccanico, l’officina è sua. Ha 55 anni, si muove con fare un po’ goffo, ma ride sempre e ostenta entusiasmo riguardo a un’economia che sembra non volersi fermare più. Un po’ come lui con il suo lavoro, mentre risponde a domande e azzarda previsioni.

«Trump vince di nuovo, non ce n’è per nessuno. Del resto, perché non dovrebbe?» Fuori ha una fila di macchine da sistemare e un paio di cartelli Help wanted in bella mostra.

«Trovare personale, specie qualificato, è diventata un’impresa». La disoccupazione, qui come praticamente ovunque negli Stati Uniti, non esiste più. «Quelli che non lavorano sono pigri, semplicemente non hanno voglia di lavorare», sentenzia in maniera netta e scoppia in una risata fragorosa. Forse eccessiva, quasi inopportuna, ma che ha il merito di stringare in una semplice battuta una grande verità.

Tornando al 2020, dei democratici non lo impensierisce nessuno e anzi, snobba Biden e attacca: «Alle volte pare che vivano su un altro pianeta, parlano di cose che neanche mi interessano più». Come l’impeachment, ad esempio. Che ne pensano qui dell’impeachment? «È una barzelletta! Avanti, deve essere uno scherzo!», sbotta di colpo. «33 milioni di dollari nostri solo di spese giudiziarie. Senza contare il tempo perso, la reputazione americana lesa, l’assedio forzato alle garanzie di un sistema di governo che qualcuno, evidentemente, percepisce come una sorta di proprietà privata. E per cosa? Per sperare di restarci per sempre in sella a quello stesso governo?»

Gli fa eco Dale Angelo Howe, 31 anni, operaio carpentiere, specializzato in costruzione e manutenzione di ponti. «Paura? E di che?». È un ragazzone robusto e ha l’aria di chi, in un passato più o meno recente, dev’essere inciampato in qualche decisione sbagliata. Ha gli occhi buoni, però. E mentre si sfrega le mani piene di tatuaggi, in un attimo rilancia: «È il Partito Democratico ad avere paura, sono loro che non sanno più cosa inventarsi».

E poi c’è Samuel Presutti, il più convinto e il più battagliero dei tre. 63 anni, ex manager di un noto colosso informatico, attualmente in pensione. «Della Russia non parla più nessuno, ora abbiamo l’Ucraina!», sbatte un pugno sul tavolo in un gesto a metà tra la rabbia e la presa in giro. Presa in giro che, a giudicare dal suo sguardo, deve sentire forte su di sé. «Una talpa che ha sentito qualcosa da qualcuno che ha sentito qualcosa da qualcuno», sembra un gioco di parole o come dice lui un gossip di terza mano, «e la trascrizione di una telefonata che prima ancora di essere letta ha fatto scattare una molla nella testa della Pelosi». Quella della grande occasione per far fuori Trump. Quella dell’impeachment, appunto.

Sam ha tre figli, tutti maschi. Una moglie incantevole, che deve aver avuto e che deve avere tuttora parecchia pazienza. E una casa infarcita di armi. Di tanto in tanto, si diverte a lucidarle assieme ai suoi ragazzi e sul retro del giardino ha messo su un vero e proprio poligono di tiro. È il più classico dei conservatori. Guarda con nostalgia al passato, oltreché alle sue radici italiane. E disprezza Obama che condanna senza appello per aver reso gli Stati Uniti «un Paese esteticamente e sostanzialmente assai più debole». «Siamo il faro del mondo, non possiamo permetterci un atteggiamento da femminucce», sottolinea scuotendo il capo come a volersi scrollare di dosso 8 anni di delusioni.

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C’è un retrogusto amaro in ogni cosa che dice riguardo alla politica, di cui si nutre, ma che lo avvelena. Non si fida di Washington, non esita a bollare tutti come «corrotti». «Arrivano ai palazzi del potere senza un centesimo e nel giro di pochi anni ne escono multimilionari. Come diavolo fanno?», finge di chiedersi mentre si agita già nella sua risposta. Nessun problema, però: «Perché Trump non è un politico». Quasi un mantra sul quale insistono a più riprese tutti e tre. Un uomo d’affari, una scheggia impazzita pronta a sfidare e a far saltare un sistema che odiano. Un presidente diverso, pieno di vizi di forma ma campione di sostanza, che vogliono vinca ancora.

Pubblicato su Il Mattino