«Un atto di guerra». Ecco come il principe designato dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman, ha definito il lancio di un missile proveniente dallo Yemen, che lo scorso 4 novembre ha lambito l’aeroporto internazionale King Khaled, distante poco più di 10 km dalla capitale Riad.
L’agenzia ufficiale del regno Saudi Press ha affermato che dietro all’aggressione yemenita c’è «il coinvolgimento diretto del regime iraniano, che fornisce missili alle milizie Houthi». E che, pertanto, l’episodio rappresenta «un’aggressione militare diretta del regime iraniano» contro gli interessi sauditi nella regione.
Come noto, Arabia Saudita e Iran sono le due potenze regionali che, nell’intricata mappa del Medio Oriente in mutamento, rappresentano rispettivamente l’Islam sunnita e quello sciita, ovvero due visioni in eterno conflitto tra loro in una terra dove politica e religione si fondono inscindibilmente.
Da questa netta contrapposizione, e complice la concorrenza economica in ambito energetico, sono scaturite una serie di guerre per procura che, anno dopo anno, aumentano sempre più le probabilità di un futuro scontro diretto tra Riad e Teheran. Anche se, a dire il vero, finora entrambi i Paesi hanno voluto evitare a ogni costo l’inizio di un conflitto diretto.
Questo perché, come ha ben sottolineato Jonathan Marcus, corrispondente diplomatico della BBC, Iran e Arabia Saudita sono oggi impegnati in una più comoda «guerra fredda regionale per l’influenza e il potere», dove «mentre i due principali protagonisti non sono direttamente coinvolti nella lotta, i loro rappresentanti sono invece impegnati a scontrarsi in diversi campi di battaglia».
I luoghi dello scontro
Uno di questi campi è proprio lo Yemen, Paese da quale è partito il missile della discordia e dove dal marzo 2015 i soldati di Riad combattono gli Houthi. Ovvero milizie sciite appoggiate dall’Iran e supportate anche dagli Hezbollah libanesi, che a loro volta sono uno strumento di lotta nelle mani di Teheran. Così, la crisi yemenita lungi dall’essere risolta ha creato una delle più gravi emergenze umanitarie al mondo, dove sono già oltre ottomila le vittime, morte non solo per la guerra ma anche per fame e per un’epidemia di colera che ha colpito quasi un milione di soggetti.
I sauditi sono impantanati in Yemen da due anni nel tentativo inane di contrastare l’influenza iraniana e ripristinare il governo di Mansour Hadi, spodestato dagli Houthi con un colpo di stato. L’Iran, nel frattempo, ha preso l’iniziativa in Siria, dove ha contribuito alle vittorie militari del governo di Bashar Al Assad contro le milizie ribelli supportate anche dall’Arabia Saudita. Inoltre, il regime iraniano ha ipotecato l’Iraq, contribuendo a rifornire di armi, denaro e truppe il governo di Baghdad, che ha recentemente sconfitto lo Stato Islamico e ora muove guerra contro le forze curde per riportare lo stato ai confini ante-guerra.
Ma la contrapposizione Iran-Arabia Saudita non si ferma qui. Dopo aver coinvolto anche il Qatar – colpito da un embargo da parte delle potenze sunnite della regione più l’Egitto, che hanno isolato economicamente l’emirato con l’accusa di fare affari con Teheran – la “guerra fredda mediorientale” si sta ora spostando in Libano, dove la longa manus di Teheran si chiama Hezbollah, il “partito di Dio” metà organizzazione politica e metà paramilitare.
Hezbollah è considerato organizzazione terroristica da numerosi Paesi, tra cui Stati Uniti e Israele, e la sua influenza nella politica libanese è tale da avergli permesso di sostituirsi allo stato in numerose regioni, in particolare nel sud del paese e nella valle della Bekaa.
Con le dimissioni del premier libanese Saad Hariri a inizio novembre, si è aperta ufficialmente la crisi. Hariri si è congedato in polemica con l’ingerenza iraniana nella politica nazionale e, attraverso di lui, i sauditi hanno cercato di scatenare una crisi politica nel cuore del potere sciita mediterraneo, che potrebbe precipitare il Libano nell’instabilità e in un nuovo conflitto armato.
Il futuro del conflitto
Messe insieme, queste azioni rappresentano un percorso a tappe che potrebbe condurre a una guerra su larga scala tra Iran e Arabia Saudita, che avrebbe quale effetto deleterio il coinvolgimento dei rispettivi alleati: da una parte Russia, Libano e i governi centrali di Siria e Iraq; dall’altra Stati Uniti, Israele e le numerose milizie sunnite orfane di un riconoscimento politico nel vuoto di potere lasciato dal Califfato nella regione. A tutti loro, si potrebbero inoltre aggiungere le popolazioni curde, che lottano per l’indipendenza sia da Damasco che da Baghdad, e la Turchia che nutre mire espansionistiche nella regione.
Tutto ciò costituirebbe la seconda fase della guerra civile siro-irachena. Una fase che prenderebbe le dimensioni di un conflitto internazionale, dalle conseguenze impredittibili e di certo nefaste per gli equilibri mondiali. L’Arabia Saudita sa bene di non poter battere in alcun modo l’Iran, né reclutando altre milizie regionali né con le armi fornite loro dagli americani. Allo stesso tempo, l’Iran è consapevole che una guerra diretta minerebbe i risultati economici raggiunti a fatica dopo anni di buone relazioni con numerosi interlocutori internazionali, oggi pronti a investire sul Paese.
Se è vero che sinora la diplomazia e le menti più avvedute sia della casa regnante saudita sia degli ayatollah iraniani hanno fatto in modo di non creare il fatidico casus belli, il rischio di un passo falso è sempre dietro l’angolo. Questo condurrebbe se non alla fine, di certo al pesante ridimensionamento di entrambi i Paesi. In favore anzitutto dei curdi e delle forze sunnite che non si riconoscono né in Damasco né in Baghdad. E a cascata gli altri attori regionali che sinora hanno osservato da vicino l’evolvere della situazione: Giordania, Israele e i numerosi governi locali che, dall’Afghanistan alla penisola araba, non vogliono più sottostare ad alcun potere centrale.
Esiste persino una mappa, che circola dai tempi dell’invasione americana in Iraq del 2003 e che ridisegna i possibili confini di un riassestamento regionale post-bellico. Mappa poi riadattata ai tempi del conflitto civile siro-iracheno dalla reporter veterana di affari esteri Robin Wright. In entrambe le versioni, curiosamente, l’Arabia Saudita per come la intendiamo oggi, non esisterebbe più.
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Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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