Di Luciano Tirinnanzi e Rocco Bellantone
Goma, provincia del Kivu nella Repubblica Democratica del Congo, è stata oggi la scena di un tentato rapimento finito nel peggiore dei modi. Un attacco armato nel Congo orientale diretto contro un convoglio Onu ha infatti mietuto tre vittime: l’ambasciatore italiano Luca Attanasio; il carabiniere Vittorio Iacovazzi, che proteggeva il diplomatico; e una terza vittima identificata come l’autista dell’auto su cui il gruppo viaggiava.
Verosimilmente a esser fatale per Attanasio è stata la disorganizzazione del gruppo di rapitori, che hanno scaricato sull’auto una raffica di proiettili nel tentativo di arrestarne la corsa. Volevano rapire proprio Attanasio e ottenerne un redditizio riscatto. Ma l’ambasciatore è stato colpito in una maniera che è apparsa subito grave agli stessi rapitori, ed è poi morto prima di poter diventare oggetto di scambio e contrattazione per il suo rilascio. L’auto è stata così abbandonata nel parco congolese di Virunga. Secondo fonti locali, invece, i rangers di Virunga avrebbero approntato un’operazione di salvataggio ma, quando hanno trovato il diplomatico, Luca Attanasio era spirato in seguito alle ferite riportate. Condotto all’ospedale di Goma, ne è stata certificata la morte.
Il viaggio diplomatico faceva parte della missione Monusco dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella RD Congo. Insieme a loro, su altro veicolo, viaggiava infatti anche il Capo Delegazione dell’Unione Europea. Sin qui i fatti.
Ma c’è molto altro da raccontare su questa storia e sulle condizioni in cui versa l’ex colonia belga (che non va confusa con il confinante Congo Brazzaville, ex colonia francese), a cominciare dall’estrema povertà che ha prodotto violenze e criminalità diffuse, di cui sono rimasti vittime anche i due italiani e l’autista del convoglio Onu.
L’Eldorado del cobalto
Vista da fuori, la Repubblica Democratica del Congo appare oggi soprattutto «una magnifica torta da spartire», volendo citare le infelici parole di Re Leopoldo II del Belgio, padrone del Congo dal 1885 al 1908. Basta una sola percentuale per rendersene conto. Nel Paese è concentrato circa il 60% del cobalto estratto a livello globale, ovvero il minerale che alimenta le batterie ricaricabili agli ioni di litio da cui prendono vita i nostri smartphone, tablet, computer portatili e le auto elettriche.
Lo sfruttamento economico del Congo ha pochi paralleli per intensità e dimensione. Sin dai tempi della colonia belga, il controllo dei giacimenti di diamanti, oro e coltan del Congo orientale – tra i più ricchi del globo – è stato in mano europea e di potenze straniere. Le enormi ricchezze minerarie sono per lo più concentrate nella regione dello Shaba, ex Katanga, al confine con Angola e Zambia. Ma le ripetute guerre che si sono succedute nel Paese, hanno impedito al Paese un pieno sviluppo e una stabile crescita economica, anche per via dell’endemica corruzione. Neanche la nazionalizzazione delle società estere ha prodotto grandi risultati per i congolesi e ha anzi alimentato corruttela e privilegi per poche élite. Tali per cui il saldo della bilancia economica resta negativo.
Come per altri Paesi del sud del pianeta dove sono presenti grandi giacimenti di risorse naturali, anche la RD Congo è ostaggio del suo minerale pregiato. Il Paese rimane infatti uno dei più poveri al mondo e lo stesso cobalto, rispetto al quale è in atto una corsa senza esclusione di colpi tra le principali case automobilistiche che si contendono il mercato della mobilità elettrica, si conferma una risorsa critica: sia per l’estrema vulnerabilità che caratterizza ogni singola tappa del approvvigionamento, sia per i suoi impatti negativi sul piano dei diritti umani e su quello ambientale.
Le tensioni interetniche
Sullo sfondo di questa corsa forsennata al cobalto restano vive le tensioni intercomunitarie e gli scontri armati, che si registrano soprattutto nelle province orientali del Nord Kivu – di cui Goma è il capoluogo – del Sud Kivu e del Katanga. In queste province, è forte la presenza di fazioni ribelli avverse al governo centrale di Kinshasa.
Nel Nord Kivu in particolare, sono frequenti le rappresaglie tra i Nande e gli Hutu. I primi accusano gli Hutu congolesi di essere complici dei ribelli Hutu ruandesi. Mentre gli Hutu rivendicano il loro diritto allo sfruttamento delle terre. A queste istanze locali si sommano le ingerenze esterne di Ruanda e Uganda e gli interessi energetici ed economici in gioco, essendo la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo ricca di miniere non solo di cobalto ma anche di oro, diamanti, stagno, rame, bauxite e coltan.
Anche per tali motivi l’Onu ha dovuto più volte inviare soldati nel Paese. Nel luglio del 2004 i soldati inviati per la missione Monusco erano oltre 10 mila, mentre oggi si attestano sulle 15 mila, con 724 osservatori provenienti da 49 nazioni diverse.
Crisi umanitaria e instabilità politica
Nella parte orientale della RD Congo sono operativi in particolare diversi gruppi ribelli che si contendono il controllo delle risorse minerarie. In questa vastissima area più di 2mila civili sono stati uccisi nel 2020 negli scontri armati tra fazioni opposte. Gli osservatori delle Nazioni Unite hanno registrato centinaia di casi di rappresaglie con machete, dato notizia di milioni di sfollati e definito senza mezzi termini questa crisi umanitaria una delle peggiori che si registrano a livello globale, confermando che gli scontri stanno aumentando anche dall’inizio del 2021.
Il gruppo ribelle più sanguinario nell’area è noto con l’acronimo di Adf (Allied Democratic Forces), fazione ribelle ugandese fondata negli anni Novanta ma che negli ultimi anni è stata attiva principalmente nella parte orientale della RD Congo. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a inizio febbraio, nel 2020 il gruppo ribelle ha ucciso almeno 849 civili in attacchi condotti nei territori di Irumu e Mambasa, nella provincia di Ituri, e nel territorio di Beni nella provincia del Nord Kivu. Sempre l’Onu ha denunciato violazioni sistematiche dei diritti umani anche da parte delle forze regolari congolesi.
Attualmente secondo le ultime stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia ci sono circa 5,2 milioni di sfollati. Un numero più alto al momento si registra solo in Siria. Di questi, la metà è stato causato dagli scontri avvenuti nell’ultimo anno.
L’identità di chi ha assalito il convoglio diplomatico la mattina del 22 febbraio non è ancora nota, ma una fonte della sicurezza ascoltata da Jeune Afrique ha attribuito la responsabilità dell’assalto a «certi elementi delle FDLR» (Forze Democratiche per la liberazione del Ruanda). Tuttavia, nel territorio sono attivi molti altri gruppi armati, comprese le milizie Nyatura, una formazione scissionista dell’FDLR, e gli ex membri del gruppo M23.
Secondo il governo congolese, la responsabilità dell’agguato è da attribuire alle FDLR. «I responsabili vanno ricercati tra le Forze di Difesa Ruandesi (l’esercito regolare ruandese) o tra le FRDC (l’esercito regolare congolese)», hanno tuttavia dichiarato le FDLR, sostenendo dunque di non avere nulla a che fare con l’assalto al convoglo Onu.
L’ultimo studio di “Baromètre sécuritaire du Kivu” ha censito 122 gruppi armati attivi nell’est della Repubblica Democratica del Congo (vale a dire nei territori di Nord-Kivu, Ituri e Tanganyika). Il numero dei civili uccisi nella regione dalla fine del 2019 dimostra in modo chiaro l’incapacità delle autorità congolesi, dell’esercito come delle forze della missione Monusco, di porre fine all’instabilità che si protrae nell’est del Paese da ormai vent’anni.
Congo, una storia di violenze
La vita politica della RD Congo è stata contornata da violenze e dolore, e sulla sua storia pesano ancora il riverbero del genocidio ruandese e le tensioni interetniche che ne hanno minato da sempre la pace sociale e qualsiasi forma di sviluppo economico.
Dal 1971 al 1997, durante l’era assolutista del dittatore Mobutu, per suo volere il Paese prese il nome di Zaire. Nel 1996 forze ribelli ruandesi e ugandesi, coalizzate sotto il comando del rivoluzionario Laurent-Désiré Kabila, mossero guerra a Mobutu dopo che nel 1994 nel confinante Ruanda era stata scritta una delle pagine più nere dell’intero continente, poiché qui aveva preso corpo una pulizia etnica che lasciò quasi un milione di morti tra la popolazione di etnia Tutsi, flagellata dalla popolazione di etnia Hutu.
La fine del massacro in Ruanda avvenne nel giugno 1994 grazie all’intervento francese sotto il mandato delle Nazioni Unite, che anticipò di tre anni la vittoria di Kabila su Mobutu in Congo-Zaire. Intanto, però, la guerra aveva costretto oltre due milioni di Hutu ruandesi a fuggire nel confinante Zaire con l’appoggio del presidente Mobutu, e la guerra e le carneficine proseguirono in territorio congolese fino alla capitolazione di Mobutu.
Una seconda guerra prese corpo nel 1998 e vide l’insorgere dei ribelli Tutsi contro le fazioni fedeli al presidente Kabila, spalleggiato da Angola, Namibia e Zimbabwe. Prima della conclusione del conflitto nel 2003, Kabila fu assassinato e la successione passò al figlio Joseph (che ha governato fino al 2019). La fine della guerra non ha tuttavia impedito che si aprissero ripetute crisi tra il governo e i ribelli dell’area del Kivu, fino allo scoppio di un nuovo conflitto nel 2008, che ha costretto l’Onu a un nuovo intervento.
Pubblicato su Panorama
Redazione
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