Il primo trimestre del 2018 non è stato particolarmente esaltante per il mercato delle criptovalute. Non solo il Bitcoin, che all’inizio di aprile ha toccato un nuovo minimo con un valore pari a 6.500 dollari, ma anche altre monete virtuali concorrenti come Ethereum e Ripple, hanno registrato dei cali significativi nell’ultimo periodo.

Il trend negativo che negli ultimi mesi ha investito l’intero settore non ha ancora un’origine chiara, ma potrebbe avere a che fare con la recente decisione del governo cinese, che a febbraio aveva annunciato il blocco di tutti i siti web cinesi legati alle attività di compravendita di criptovalute. Mossa preannunciata già nel mese precedente con la diffusione su Twitter di un documento ufficiale del Gruppo per la Prevenzione dei Rischi Economici di Internet, nel quale si invitavano le amministrazioni locali a pianificare «un’uscita controllata» dal settore delle società cinesi che si occupano di estrazione (mining) di Bitcoin.

Il documento giustifica la mossa adducendo come motivazioni l’aumento della speculazione e l’inconvertibilità con la moneta locale, nonché l’ingente dispendio di risorse, soprattutto a livello di consumo di energia elettrica, provocato dall’attività di estrazione. Quest’ultima, che inizialmente poteva essere effettuata tramite computer domestici, a causa delle dimensioni raggiunte dal sistema di scambio delle valute virtuali a livello globale necessita ora di enormi infrastrutture che compiano questa attività a livello industriale, con un conseguente impatto ambientale significativo, specialmente a livello di consumo energetico annuo.

Secondo le stime, la gran parte di queste infrastrutture è collocata proprio in Cina, che risulterebbe in tal modo il principale “generatore” mondiale della potenza di calcolo necessaria all’estrazione dei Bitcoin. È quindi verosimile che il veto posto dalle autorità cinesi sulle attività di estrazione di Bitcoin sul territorio nazionale possa aver avuto conseguenze significative sul trend dell’intero mercato delle valute digitali. Le quali rimangono tuttavia un elemento di interesse per Pechino, come dimostra il progetto per lo sviluppo di una “valuta digitale sovrana” cinese, il cui utilizzo, come è stato chiarito dal governatore della banca centrale Zhou Xiaochuan lo scorso 9 marzo, dovrà limitarsi ai pagamenti e non essere impiegato come un mezzo per «minare la stabilità finanziaria» del Paese.

Un’ulteriore motivazione del temporaneo stop della Cina ai Bitcoin potrebbe inoltre essere dovuto alla natura ancora poco chiara delle transizioni effettuate con questa criptovaluta, anche se possibili criticità legate all’anonimato di chi compie l’operazione e la non-tracciabilità vengono risolte, come note, tramite la tecnologia Blockchain. Nonostante ciò, l’uso di Bitcoin rappresenta al momento un fattore problematico per il governo cinese, che ha recentemente inasprito le misure di controllo sull’uso di Internet (grazie anche alla recente Legge sulla cyber security, approvata lo scorso anno), arrivando a proibire l’uso delle comunicazioni private tramite le reti VPN (Virtual Private Network).

 

Che succede in Nord Corea?

L’anonimato che caratterizza il sistema di transazioni virtuali sembra far invece gola alla Corea del Nord, che deve far fronte alle sempre più severe sanzioni imposte dalla comunità internazionale e ha necessità di raccogliere risorse economiche per sviluppare il proprio programma missilistico e nucleare.

In particolare, più che al Bitcoin, il regime di Pyongyang appare interessato ad altre criptovalute come Monero, il cui protocollo garantisce non solo l’anonimato degli utilizzatori, ma anche la non-tracciabilità degli indirizzi dei “portafogli” e dunque l’identità dei mittenti e dei destinatari degli importi.

A tal proposito, la Corea del Nord avrebbe recentemente attivato il proprio esercito di hacker state-sponsored (si parla di circa 6mila unità), che negli ultimi mesi si sono resi protagonisti di vere e proprie “rapine” ai danni di piattaforme di exchange sudcoreane e giapponesi, oltre che di attività indipendenti di mining, effettuate sfruttando computer infettati da malware e controllabili da remoto.

Il colpo più grosso, che la National Intelligence Service della Corea del Sud non ha esitato ad attribuire agli hacker nordcoreani, è stato quello inferto alla giapponese Coincheck, da cui lo scorso 26 gennaio è stato sottratto l’equivalente di circa 500 milioni di dollari americani.