Ieri a Palazzo Chigi l’incontro tra il generale Haftar e Giuseppe Conte sulla Libia. Il premier italiano ha avuto un lungo colloquio con l’uomo forte della Cirenaica. Ad Haftar Conte ha chiesto un impegno per il cessate il fuoco e che si arrivi a una soluzione politica della crisi in Libia. Ma sulla Libia, Onu, Nato e Ue hanno dato un’altra prova di impotenza, diversamente i Paesi del Golfo. Al Baghdadi, in fuga dalla Siria, potrebbe trovarsi proprio nel Paese nordafricano.
“Non esiste una soluzione militare alla crisi in Libia e per questo tutte le parti devono impegnarsi nuovamente nel dialogo politico facilitato dalle Nazioni Unite e adoperarsi a favore di una soluzione politica globale alla crisi”. Ecco, in sintesi, quanto emerso dal Consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue che si è svolto a Bruxelles il 13 maggio. Se confrontiamo le parole dei rappresentanti europei con quello che accade sul terreno – una guerra civile che ha già mietuto quasi 600 morti tra cui più di 120 bambini e che non accenna a fermarsi – risulta evidente come l’Europa non abbia la benché minima idea di come “metter mano” alla questione. Chiunque, a parole, sarebbe capace di dire che è necessario porre fine a questo massacro, ma dall’Unione Europea ci si aspetterebbe almeno una proposta congiunta per realizzarlo fattivamente.
Da cosa derivi questa incapacità è più che evidente: non esiste una linea comune a livello europeo perché non c’è un accordo tra i suoi attori, e la cosa più semplice da fare è quella di stare a guardare le evoluzioni sul terreno per essere pronti a saltare sul carro del vincitore. D’altra parte si tratta, essenzialmente, di una guerra per procura tra attori regionali e l’occidente è parso fin dall’inizio piuttosto spiazzato. Da un lato la Turchia e il Qatar sostengono la Fratellanza musulmana dell’Ovest e dall’altro gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita finanziano i salafiti che pullulano tra le fila dell’esercito di Haftar. Tutti gli altri attori, a partire da chi aveva voluto la destabilizzazione della Libia (leggasi Francia), agli Stati Uniti, fin qui poco coinvolti, alla Russia, parte in causa con il suo storico sostegno al generale della Cirenaica, stanno più o meno a guardare, rimodulando la propria strategia o, per meglio dire, le loro momentanee prese di posizione, a seconda degli equilibri del momento.
Nessuno ha il coraggio di condannare pubblicamente Haftar che, in caso di vittoria, sarebbe il padrone della Libia e dunque delle sue tanto ambite risorse, ma al contempo nessuno, tranne il presidente americano Trump, ha avuto “l’ardire” di appoggiarlo palesemente. D’altra parte il Tycoon ha ben chiaro che i sauditi – alleati del generale – hanno bisogno dei ricavi del petrolio per tenere fede agli importanti accordi economici con gli Usa e l’aumento del prezzo del greggio, che la totale destabilizzazione della Libia potrebbe favorire, sarebbe manna dal cielo che, se unita alle sanzioni all’Iran, permetterebbe a Riad sonni più tranquilli.
Se l’Europa brancola nel buio, la Nato è decisamente in un vicolo cieco. L’alleanza atlantica che nel 2011, in un solo mese, aveva trovato un accordo per bombardare Gheddafi ora non riesce neppure ad emanare una dichiarazione d’intenti. Nel già menzionato vertice di Bruxelles l’inviato Onu Ghassan Salamé e Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, hanno convenuto sulla necessità di aiutare la Libia a “costruire istituzioni di sicurezza efficaci se il governo lo richiederà”. Qualcuno, forse, dovrebbe ricordare agli alleati atlantici che a Tripoli, sede del Governo di accordo nazionale, voluto e riconosciuto, nel 2015, dalle Nazioni Unite è in corso una guerra tra Haftar e le milizie fedeli a Serraj, l’uomo che, a scanso di equivoci, proprio l’Onu aveva messo alla guida di questo governo e l’uomo che in questi giorni ha provato, con un tour europeo, a chiedere una maggiore collaborazione per una de-escalation del conflitto ai più che riluttanti “amici dell’Europa”. È evidente che sostenere Serraj vorrebbe dire, per i più, perdere gli amici sauditi, emiratini ed egiziani. Troppi sono gli interessi dei singoli per sacrificarli per una linea comune.
In questo scenario desolante trovano spazio i jihadisti delle più disparate sigle. Alcuni si sono mescolati tra i combattenti, altri invece hanno colto l’occasione per tentare di rinsaldare la propria immagine. Lo stato islamico ha rivendicato un attentato nei dintorni di Sebha, nella regione meridionale del Fezzan, contro forze dell’Esercito nazionale libico di Haftar. Secondo quanto riportato dal Daily Express – che cita fonti dell’intelligence britannica – al Baghdadi, in fuga dalla Siria, sarebbe in Libia per tentare di farne la nuova roccaforte dell’Isis. Notizia non confermata ma che quantomeno insinua un dubbio.
Né questo allarme né il numero crescente di morti e sfollati pare, però, smuovere più di tanto le cancellerie mondiali. Se da un lato è vero che la partita si gioca nel Golfo, è anche vero che le istituzioni internazionali, con un maggiore impegno, potrebbero quantomeno tentare un dialogo tra le parti, in primo luogo con i vari sponsor regionali fin qui lasciati ai margini. Viceversa la Libia, dopo la Siria, sarà l’ennesimo fallimento dell’Europa e della Nato e più in generale di quel sistema multilaterale di alleanze che dal ’45 in poi abbiamo pretenziosamente chiamato “Occidente”.
Michela Mercuri
Docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI, insegna Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e Storia contemporanea dei Paesi mediterranei all’Università di Macerata
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