L’inizio della fine. È questa la sensazione montante circa il futuro politico di Vladimir Putin e del suo sistema di potere interno, dopo i fatti di Mosca legati alla condanna al dissidente Alexej Navalny. Non è notizia di oggi. Lo è già da qualche tempo, per la verità. Ma questa sensazione, che si fa sempre più largo tra le pieghe dei recenti fallimenti del Cremlino in politica interna, è oggi avvalorata dalla pessima gestione relativa alla «scheggia impazzita» che Mosca voleva ridurre al silenzio. E che, al contrario, ne ha involontariamente nobilitato il ruolo di «concreta minaccia al potere centrale».
Navalny, storico dissidente russo e principale oppositore delle politiche autoritarie del governo del presidente, è stato arrestato e picchiato più volte. Ma un tentativo fallito di assassinio è ben altra cosa. Nonostante il consenso di Putin resti ancora alto nel Paese, aumentano gli indizi e le possibilità che ciò che sta avvenendo in Russia in questi giorni costituisca un’importante novità politica: per la prima volta, si ha la sensazione strisciante che si sia definitivamente e manifestamente affermato un movimento di vera opposizione a Vladimir Putin. E, quel che è peggio per Mosca, che questo messaggio sia passato anche a livello internazionale.
Del resto, non poteva andare diversamente. Come noto, Navalny è prima stato avvelenato a bordo di un volo russo nel tentativo di tappargli la bocca per sempre. Poi, una volta che è sopravvissuto al tentato omicidio, ancora convalescente è stato arrestato al rientro a Mosca e condannato per direttissima a 3 anni e 5 mesi per violazione della libertà vigilata. Il che lo ha reso de facto un simbolo per la resistenza. Un «martire mancato», se vogliamo drammatizzare. E, si sa, i regimi non si nutrono della resistenza, ma è vero il contrario: la resistenza va a nozze con i martiri, o presunti tali.
In ogni caso, non è tanto sui termini e nel contenuto delle rivendicazioni di Navalny che ruota l’intera faccenda. Quanto piuttosto nella visibilità ottenuta da questo indefesso oppositore; il cui seguito politico in Russia, peraltro, finora era stato largamente inferiore a quanto non si percepisse in Occidente. Ora, invece, il consenso interno ed esterno intorno alla sua figura si va saldando giorno dopo giorno. Di certo, si è incredibilmente ampliato dopo il tentativo fallito di avvelenarlo. Questo, più di ogni altro aspetto, è il sintomo manifesto di un meccanismo che si è inceppato. Al contempo, si registra un’insofferenza crescente tra la popolazione nei confronti del governo centrale.
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La pistola fumante nel mandante del tentato omicidio di Navalny non c’è, ovviamente. Ma è evidente che, almeno di fronte al tribunale dell’opinione pubblica, il principale imputato, se non l’unico, è proprio il presidente Vladimir Putin. «Non poteva non sapere», ammettono quasi tutti tra i denti. Affermazione vera se solo in parte.
Perché la vera accusa va indirizzata anzitutto ai servizi segreti russi. Che, peraltro, non sono un monolite ma, a loro volta, in quanto «poteri forti di Russia» sono in lotta per la successione. Le divergenze in seno al potere si possono riassumere nella fazione di San Pietroburgo, che rappresenta il cerchio magico fedele a Putin; e nella fazione di Mosca, ovvero l’élite economico-finanziaria, invece assai critica del presidente.
Sin da tempi non sospetti – quindi ben prima della pandemia – quest’ultima ha visto i propri interessi economici calpestati, e oggi teme di non risollevarsi dopo un decennio di mancata crescita economica. Sono dunque loro i più interessati a un cambio di passo. La fazione di Mosca, insomma, vede nel circolo interno di San Pietroburgo che Putin ha portato con sé alla presidenza come qualcosa di troppo spietato, e soprattutto foriero di ulteriori guai. Il caso Navalny ne è la conferma.
Né la faccenda può essere liquidata come ha fatto lo stesso presidente: «Se avessimo voluto, il lavoro sarebbe stato completato» ha detto il leader russo con la tipica spavalderia che lo contraddistingue, e che però tradisce un certo fastidio.
Il punto è però che, agli occhi dei più, appare una certezza che il mandante sia stato proprio lui. «Putin passerà alla storia proprio come un avvelenatore. Sapete, c’era Alessandro il Liberatore o Yaroslav il Saggio. E avremo Vladimir l’Avvelenatore» ha dichiarato Navalny poco prima della sentenza che lo ha condannato. E ha avuto gioco facile nel dirlo, oltretutto di fronte a una platea mediatica senza precedenti. Per poi sottolineare:
Ciò che conta di più è il motivo per cui questo sta accadendo. E sta accadendo per intimidire un gran numero di persone, vogliono imprigionare una persona per spaventarne milioni.
Il rischio, adesso, è perdere al tempo stesso quel grande consenso costruito in decenni, e progressivamente il controllo dell’ordine pubblico. Già perché, rispetto alle modeste manifestazioni organizzate da Navalny e dai suoi negli anni passati (dove la presenza di oppositori al regime è sempre stata scarsa), stavolta le piazze si riempiono e le folle non indietreggiano, preferendo scontrarsi sotto la neve con gli agenti di sicurezza e farsi arrestare, piuttosto che disertare o rincasare docilmente.
Insomma, qualcosa è cambiato. E Alexej Navalny rappresenta proprio quella variante impazzita e imprevista; un «effetto snowball» capace di far franare tutto senza che vi sia necessariamente un perché. La sua picconata alla credibilità del Cremlino può oggi aprire una breccia irreparabile. Lasciando che in molti, dentro e fuori la Russia, ne approfittino per minare la stabilità già precaria del Paese.
Questo non significa che verrà giù tutto insieme come nel 1989, anzi. Il processo sarà lento e comunque è già in corso. Ma il paradigma appare cambiato. E il fatto che Putin sembra porsi sempre più sulle difensive non è certo un segnale di forza da parte sua.
Nei suoi vent’anni e più al potere (è in carica dal 1999), il presidente russo ha fatto del controllo centralizzato la cifra del suo potere assoluto. E c’è riuscito anche e volentieri attraverso un uso spregiudicato dei servizi segreti. Ma ogni sistema irreggimentato e iper-centralizzato è al tempo stesso soggetto a inefficienze fatali: perché appena si genera una falla, tutta l’architettura vacilla. Ed è esattamente quanto accade oggi sotto il cielo di Russia.
Del resto, quando Vladimir Putin salì al potere per la prima volta, il suo gruppo ristretto era per lo più costituito da ex alleati del Kgb di San Pietroburgo, le cui divisioni interne in epoca sovietica si concentravano proprio sull’eliminazione dei dissidenti e sul mantenimento del controllo politico. Oggi tutto questo sembra una sorta di nemesi storica.
“Vladimir Putin – World Economic Forum Annual Meeting Davos 2009” by World Economic Forum is licensed under CC BY-NC-SA 2.0
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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