Le stime cinesi, seguendo il discorso del presidente Xi Jinping alle Nazioni Unite del 2020, indicano il 2030 come l’anno apicale per il consumo di carbone e il 2060 come il momento della neutralità. Un obiettivo arduo da raggiungere, mentre i prezzi relativamente bassi del petrolio non incentivano la diversificazione.
I dati cinesi sono da recepire con riserva e da mitigare con le valutazioni del Financial Times del 27 settembre 2023, secondo cui la International Energy Agency non prevede di raggiungere il plateau fino al 2027 e il picco nel 2030 come parte di uno shift più generale e lontano da tutte le fonti fossili. Quel che si evince è che la Cina si sta avvicinando a una inflessione: «La Cina è già il maggior produttore mondiale di petrolchimici e sta espandendo ulteriormente, per JP Morgan ha aggiunto 22,2 mmtpa di produzione di etilene tra 2017 e 2023 e si stima che aggiungerà altri 15,1 mmtpa (Million metric tonnes per year) prima della fine del 2025.
«Non mancano le joint venture – spiega sempre il Financial Times – Ad agosto la Sinopec ne ha firmata una con Ineos del Regno Unito per produrre etilene e un’altra con Aramco dell’Arabia: casa Saud acquista know how cinese per la raffinazione contro l’impegno di Pechino di acquistare petrolio sul lungo periodo. Alcuni analisti sostengono che la metamorfosi in corso delle compagnie statali cinesi oltre a sospingere la produzione di petrolio debba costruire il sostegno alle rinnovabili».
Secondo Reuters «l”import cinese di petrolio crudo potrebbe salire tra 500.000 e 1 milione di barili al giorno (situazione 2023) fino a 11,8 milioni di barili, invertendo il declino del biennio 2021-2022 e superando il record del 2020 di 10,8 milioni secondo analisi di Wood Mackenzie, Fge, Energy Aspects e S&P Global Commodity Insight».
È il colpo di coda di un processo delineato da almeno un decennio e che ha portato a quello che Manlio Graziano ben definisce come «disordine mondiale» come ha intitolato il suo recente libro (Mondadori, 2024).
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