Negli Stati Uniti sono tanti i «poteri forti» a volere una normalizzazione dei rapporti economici con la Cina: da Wall Street alle multinazionali, fino agli imprenditori più colpiti dalla guerra dei dazi innescata da Trump. Ma un’eccessiva distensione non è nei piani di Biden, che si è insediato ieri 20 gennaio e che ha già recriminato al suo predecessore di essere stato «troppo morbido con Pechino».
Da un lato ci sono colossi aziendali americani come Apple, Starbucks, Tesla, Blackstone Group, Oracle, che assieme a un numero consistente di grandi nomi di Hollywood, a partire da Disney, in passato hanno guadagnato molto da una relativa distensione tra Stati Uniti e Cina. Dall’altro, la linea dura con la Cina, rimarcata con forza da Trump durante negli anni del suo mandato presidenziale, trova l’approvazione bipartisan del popolo statunitense, e viene sostenuta anche da una influente “China lobby” pro-Taiwan che opera fin dagli anni Cinquanta negli Stati Uniti e non solo, raggiungendo oggi milioni di americani attraverso il gruppo Epoch Media. Questo gruppo, onnipresente nel dibattito domestico americano, è controllato dalla controversa setta Falun Gong, vittima di persecuzioni nella Repubblica Popolare Cinese perché apertamente anti-comunista e, negli Stati Uniti, accusata di misoginia, omofobia e di impiegare pressione e violenza psicologica sui suoi membri.
Se Trump ha issato un muro nel confronto con Pechino, dal nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden è invece plausibile aspettarsi un ritorno alla multilateralità e, in parallelo, un focus più convinto sulla tutela dei diritti umani e sull’applicazione del diritto internazionale.
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Federico Zamparelli
Ha studiato Scienze Diplomatiche al SID di Gorizia (Università di Trieste) e proseguito con una magistrale in Global Studies, in un programma di doppia laurea con la LUISS di Roma e la China Foreign Affairs University di Pechino. Proprio non riesce a resistere al fascino del “regno di mezzo”.
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