Al netto della sue deposizione, secretata, il premier ha comunque commesso un errore politico e strategico
Già il fatto che il Copasir – il Comitato parlamentare di controllo sulla sicurezza della Repubblica – lo abbia audito sul caso «Russiagate», non è una buona notizia per il premier Giuseppe Conte. Che poi il presidente del Consiglio possa aver confessato di aver autorizzato i servizi segreti italiani a riferire notizie al ministro della giustizia americano William Barr a proposito dei contenuti delle mail di Hillary Clinton trafugate dai russi, è ancora peggio.
Questo perché in Italia, da prassi consolidata, i dirigenti dell’intelligence possono parlare soltanto con gli omologhi funzionari dei servizi segreti stranieri; peraltro, solo se di pari grado, se autorizzati dal presidente del Consiglio (cui spetta la delega sui servizi) e in forza di accordi multilaterali tra Paesi alleati, o comunque per ragioni di servizio.
Conte, invece, autorizzando il comandante del DIS Gennaro Vecchione (che sovrintende ai servizi segreti interni ed esteri) a «spifferare» informazioni agli uomini di Trump, ha rotto un protocollo consolidato nonché una regola aurea internazionalmente riconosciuta. C’è un motivo preciso se l’intelligence di un Paese democratico non può e non deve riferire alcunché a un rappresentante politico di un altro Stato: si chiama sicurezza nazionale.
Infatti, i politici hanno per loro natura esigenze e scopi del tutto divergenti dall’intelligence, tra i quali non di rado ci può essere anche quello di destabilizzare un altro Paese. Al contrario, compito dei servizi segreti è per legge tutelare la nazione che hanno giurato di difendere da qualsiasi ingerenza, sia essa interna o esterna. Evitare di trascinare il proprio presidente del Consiglio in una scivolosa querelle internazionale, ad esempio, rientra tra i loro compiti.
Perché, dunque, Vecchione ha acconsentito all’inopportuna richiesta del premier? Vecchione avrebbe potuto tranquillamente confrontarsi con CIA ed FBI, così come Giuseppe Conte avrebbe potuto parlarne direttamente con Donald Trump. Eppure, nulla di tutto ciò è stato fatto.
Con tutta probabilità, Giuseppe Conte ha peccato d’inesperienza, agendo in questo modo non per malafede, ma soltanto per compiacere una richiesta espressa di Donald Trump. Il quale ha inviato più volte Barr e il procuratore federale John Durham in Italia, a raccogliere prove di quella che a tutti gli effetti è una contro-inchiesta sul caso «Russiagate», tesa a dimostrare che Clinton e Obama avevano complottato contro l’allora candidato americano affinché non vincesse le elezioni.
Il che, tuttavia, non scagiona affatto il premier, considerato che Conte si è volontariamente intestato l’intera gestione della sicurezza nazionale: dalla delega sui servizi segreti alla nomina di un tecnico al ministero dell’Interno, che di conseguenza dipende da lui. Tutto ciò è ovviamente lecito nel nostro ordinamento, ma sconveniente per chiunque. Specie per chi non ha mai masticato questioni di sicurezza nazionale.
Quale sia la verità dietro questa intricata spy-story non è dato sapere. Sia perché l’audizione al Copasir è stata secretata sia perché il testimone chiave dell’intera vicenda, il docente maltese della Link University di Roma Joseph Mifsud, è sparito nel nulla da ben due anni. Mifsud è colui il quale avrebbe rivelato per la prima volta l’esistenza di una serie di e-mail compromettenti su Hillary Clinton, comportandone la sconfitta alle presidenziali del 2016. E, secondo indiscrezioni rese alla testata americana Daily Beast, i servizi segreti italiani avrebbero fatto ascoltare a Barr e Durham proprio dei nastri contenenti intercettazioni telefoniche di Mifsud.
Inoltre, anche se secretata, la versione che Conte ha reso al Copasir dovrà collimare con quella di Barr, a sua volta finito sotto l’indagine che l’FBI ha istruito per valutare un possibile impeachment nei confronti del presidente Trump. Se così non dovesse essere, allora i problemi per la presidenza del Consiglio potrebbero non essere finiti qui.
In conclusione, il filone italiano del «Russiagate» ha dimostrato tanto la debolezza delle nostre istituzioni di fronte alle pressioni del potente alleato, quanto l’impreparazione o lo sprezzo delle regole da parte di alti dirigenti della sicurezza nazionale. Che, di conseguenza, hanno prestato il fianco a ennesime strumentalizzazioni politiche.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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