Giuseppe Conte, domenica 6 dicembre, profetizzava: «Il Governo non cadrà sul MES». Previsione azzeccata: l’esecutivo giallorosso in Senato si è salvato sul filo del rasoio, pur scendendo sotto la soglia dei 161 voti favorevoli (si è fermato a 156), con qualche qualche, prevedibile, distinguo in casa M5S. Ma con il voto favorevole di singoli esponenti dell’opposizione, in disaccordo col gruppo di riferimento (Renato Brunetta).
Il premier ha vinto la partita sul MES, ma allo stesso tempo ha perso quella sul Recovery Fund fermato, su questo versante, da Matteo Renzi. Conte è andato a Bruxelles con l’ok alla riforma del MES, ma senza un piano nazionale dettagliato per utilizzare i fondi europei.
Nella capitale belga Conte è arrivato come un “leader dimezzato” dalla sua stessa maggioranza, che ha posto problemi di “metodo e di merito” per quanto riguarda i criteri sull’uso dei fondi Ue.
Conte, infatti, immaginava una struttura piramidale, con la Presidenza del Consiglio al vertice, a seguire il Ministero dell’Economia (Pd) e quello dello Sviluppo Economico (M5S), coordinati dal Comitato interministeriale Affari europei guidato dal ministro Enzo Amendola (Pd). Sotto questi ultimi, un comitato tecnico formato da sei manager, uno per ogni macroprogetto. Nell’ultimo “gradino” avrebbero trovato posto 300 (poi scesi a 90) manager che avrebbero dovuto seguire fattivamente il piano elaborato dal Governo. E proprio su questa cabina di regia centralizzata, sono nati i malumori in seno alla maggioranza.
Nella seduta mattutina alla Camera del 9 dicembre, il Pd, per bocca del capogruppo Delrio, ha chiesto al premier di trovare una sintesi, per quanto riguarda il tema della governance: «Non esautori il paese, convochi il parlamento, le regioni, i comuni, le parti sociali e poi cerchi una sintesi». L’ex Ministro dei Trasporti ha sollecitato il premier ad utilizzare il metodo della concertazione, inaugurato dal Governo Ciampi nel ’93, proprio nel giorno dell’anniversario della nascita dell’ex Capo dello Stato.
Ancora più netto è stato il capogruppo democratico al Senato, Andrea Marcucci: se da una parte ha sostenuto che il premier è andato a Bruxelles con un mandato chiaro da parte del Parlamento; dall’altro, ha sottolineato come sulle regole per l’utilizzo dei fondi Ue, ci siano forti ritardi. «Sulla governance del Recovery plan purtroppo siamo ancora molto indietro e mi aspetto che Conte faccia uscire dal Consiglio dei Ministri, una proposta condivisa che coinvolga parlamento, enti locali e parti sociali», ha affermato Marcucci.
L’aspettativa di Marcucci, che è sembrata un sibilo minaccioso al premier, fa sospettare a qualche collega dem che l’attuale capogruppo potrebbe confluire nel gruppo parlamentare di Italia Viva a partire dal prossimo anno. Ma l’intervento che ha tenuto tutta la maggioranza col fiato sospesto è stato quello del Senatore di Scandicci, Matteo Renzi. L’ex premier ha da subito messo sul piatto i posti di governo occupati dal suo partito, due ministeri e un sottosegretariato, per tornare a parlare delle questioni di “metodo e di merito”.
Sul metodo ricorda come il suo movimento chiedeva di “discutere in Parlamento” durante i mesi estivi, accusando quindi il Presidente del Consiglio di scarsa collegialità e di decidere in solitaria. Sul merito, si concentrano le accuse più pesanti: «Chi ha deciso che sulla Sanità vadano 9 miliardi? Chi ha deciso di suddividere i capitoli di spesa in questo modo?».
Ma l’ accusa maggiore il leader di Italia Viva la fa sul tema “metodo” in generale. Come spendere i 209 miliardi del “Piano Marshall” europeo, che sono comunque nuovo debito, deve essere la politica a deciderlo, assumendosi tutte le responsabilità e non una squadra di tecnici nominati da Palazzo Chigi, una scelta che costituirebbe un commissariamento del Parlamento.
Il piano di governance di Conte, che tuttavia è sembrato un mini rimpasto di Governo, senza tuttavia definirlo tale, è saltato, proprio per l’opposizione di quella “vecchia politica” verso la quale, il partito che ha portato a Palazzo Chigi il professore di Volturara Appula, ha sempre fatto una guerra senza quartiere, per poi rimanerne ostaggio a sua volta.
Il Governo, per ora, è salvo, ma si apre una nuova partita per l’esecutivo giallorosso: la ridefinizione della squadra di governo, col M5S che chiede un Ministero pesante ma che difficilmente potrebbe ottenere, avendo già gli Esteri, e Italia Viva che vuole scrivere ex novo le regole sulla governance del Recovery Fund coinvolgendo anche l’opposizione, con Berlusconi possibilista.
Tuttavia, proprio l’approvazione del MES ha acuito le divisione nel M5S, aprendo, di fatto un’altra falla nella maggioranza. Appoggiando la riforma del MES, i pentastellati danno l’impressione di rinunciare ad ogni principio e ogni battaglia identitaria portata avanti negli anni. Una linea, questa, che gli ha portati ad essere il primo partito alle elezioni del 2018. Il voto favorevole al MES, infatti, è l’ultimo in ordine di tempo, prima di quest’ultimo ci sono stati i «si» alla TAV, al TAP e all’Ilva.
E proprio sul MES, anche i più recalcitranti tra i senatori pentastellati – Lezzi, Lannutti e Morra, per citarne alcuni – sono rientrati nei ranghi votando col resto del gruppo, questo perchè si avvicinano i tempi per la scelta scelta del nuovo organismo collegiale che dovrà sostituire il capo politico pro tempore, Vito Crimi. Se questi, infatti, avessero votato contro la volontà della maggioranza, sarebbero contravvenuti alle regole del Codice Etico del Movimento, che prevede l’espulsione dal partito in caso di voto contrario “a quanto stabilito dalla maggioranza del gruppo parlamentare”. In caso di sanzioni non avrebbero potuto ambire a entrare in quella che sarà una segreteria allargata del Movimento.
Nella confusione grillina si nota il silenzio di Alessandro Di Battista, segno che anche l’ex deputato ha dei progetti su quell’ «organismo allargato». Un progetto che, se dovesse concretizzarsi, porterebbe alla fine dell’alleanza col PD, con contestuale fine anticipata della legislatura e con un M5S riposizionato su temi più legati alle origini, come il no all’euro. Un M5S che potrebbe fare quadra con la Lega nella successiva composizione delle Camere su alcuni temi rilevanti, come ad esempio il prossimo inquilino del Quirinale.
Conscio di queste pulsioni battagliere all’interno del suo partito, Luigi Di Maio, si propone – nuovamente – come capo politico, in qualità di normalizzatore e pontiere verso gli “incendiari”. Nonostante i, forti, mal di pancia in casa grillina, è difficile pensare che siano questi ultimi a far cadere il Governo, proprio perchè sarebbero loro ad avere tutto da perdere.
Il principale sospettato rimane quello che è stato il kingmaker di questo esecutivo, il senatore di Scandicci Matteo Renzi. Se ci saranno le elezioni anticipate, per Italia Viva, sarebbe più semplice affrontare la campagna elettorale con l’attuale legge elettorale – il Rosatellum – facendo, magari un accordo col PD, similmente a quanto fece +Europa nel 2018. Se, invece, la legge elettorale dovesse essere diversa, magari un proporzionale con un forte sbarramento (si parla del 5%) la vita per il partito renziano potrebbe farsi molto più dura.
Michele Rosini
Nato a Livorno nel 1989, studia studia Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università di Pisa. Appassionato di geopolitica e politica italiana. Europeista e atlantista, parla fluentemente inglese e spagnolo, un po' di tedesco e di olandese.
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