Manca poco più di un mese all’atteso incontro tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong Un fissato per fine maggio o inizio giugno. Le premesse apparentemente non potrebbero essere migliori. Solo la settimana scorsa Kim ha dichiarato di voler ritirare i test missilistici. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni altisonanti sulla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, sulla possibilità di stipulare un trattato di pace tra le due Coree e sulla tanto ricercata denuclearizzione della penisola che potrebbero seguire al summit, resta il timore che l’incontro si riveli un grande buco nell’acqua.
Mentre l’Amministrazione americana cerca di prepararsi al meglio sfruttando il poco tempo a disposizione, restano ancora da definire il giorno e il luogo in cui avverrà il summit. La scelta della sede sarà il risultato di un sudato compromesso tra americani e nordcoreani, intenzionati a non alimentare la macchina della propaganda da nessuno dei due lati.
Potrebbero essere la Svezia, la Svizzera o la Finlandia, secondo fonti della Casa Bianca, a ospitare il primo vertice tra un presidente americano in carica e un esponente della famiglia Kim. Ginevra, o una città svedese non meglio precisata, sarebbero in cima alla lista degli Stati Uniti. Sembra però poco probabile che Kim accetti di recarsi in un Paese occidentale, a meno di ricevere solide garanzie sulla propria incolumità. Tra le sedi che gli Stati Uniti starebbero valutando attentamente ci sarebbe anche Ulaanbaatar. La capitale mongola è tra le favorite perché facilmente raggiungibile in treno o in aereo dalla Corea del Nord. La Mongolia, inoltre, intrattiene relazioni diplomatiche sia con Pyongyang che con Washington e per questo sarebbe un luogo più neutrale rispetto a una città cinese o russa.
Quali saranno le prossime mosse di Trump?
Nel negoziato con Kim la denuclearizzazione della penisola coreana dovrebbe essere al primo posto tra le priorità strategiche degli Stati Uniti. Il passo più importante in questa direzione sarebbe convincere la Corea del Nord a confermare gli impegni assunti durante i colloqui a sei tra il 2005 e il 2007. Tali negoziati restano l’unica sede in cui Pyongyang è stata obbligata a mettere da parte le vaghe e inconsistenti promesse di una penisola libera dal nucleare a favore di impegni specifici e messi per iscritto. Victor Cha e Katrin Fraser Katz in un articolo pubblicato su Foreign Affairs hanno consigliato a Trump di perseguire una strategia coercitiva «di tipo comprensivo» che si faccia forte del supporto degli alleati di Washington. Questa strategia poggia su alcuni elementi fondamentali:
- Washington dovrebbe continuare a puntare sulle sanzioni internazionali contro la Corea del Nord intorno alle quali è riuscita a costruire un ampio consenso e che hanno dimostrato di essere un strumento valido di coercizione.
- Una dichirazione di non proliferazione nucleare. Un documento di questo tipo sarebbe uno degli strumenti migliori per ottenere dalla Corea del Nord il rispetto degli impegni presi. La dichiarazione dimostrerebbe senza alcuna ambiguità che gli Stati Uniti sarebbero determinati a rispondere, anche con l’uso della forza, a qualsiasi Stato, gruppo o individuo responsabile di un trasferimento di materiale nucleare. Altro obiettivo sarebbe spingere per la formazione di una coalizione internazionale contro la proliferazione nucleare che condivida informazioni riservate sul contrabbando via mare di armi e che cooperi per assicurare l’applicazione di queste norme.
- Il perfezionamento dell’alleanza militare con il Giappone e con la Corea del Nord. Gli Stati Uniti dovrebbero migliorare le capacità di difesa missilistica di questi Stati, permettere la condivisione delle informazioni di intelligence e posizionare bombardieri B1 e B2 in nuove basi. Per rendere più efficace l’alleanza Washington dovrebbero formulare una dichiarazione congiunta insieme a Tokyo e Seoul che prescriva il principio della difesa collettiva. La dichiarazione dovrebbe impegnate tutti e tre gli alleati all’uso della forza in risposta a un eventuale attacco nordcoreano. L’affermazione del principio della difesa collettiva è importante soprattutto se si tiene conto che uno degli obiettivi di lungo termine di Pyongyang è spezzare i legami tra Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti che si fondano sulla garanzia dello scudo militare americano. Questo infatti era uno degli scopi dei test missilistici di Kim.
Il negoziato non dovrebbe trascurare la tutela dei diritti umani da parte del governo nordcoreano. Il risultato migliore per Trump, infine, sarebbe riuscire a istituire un regime di tolleranza zero riguardo qualsiasi scorta di uranio e plutonio della Corea del Nord e riguardo l’utilizzo di missili balistici a medio raggio. Trump dovrebbe chiedere e ottenere da Kim anche una riduzione sostanziale delle riserve di missili a corto raggio.
Gli errori che non deve commettere Trump
La Casa Bianca non fa mistero di continuare a tenere in caldo l’opzione dell’attacco limitato contro i siti nucleari e missilistici nordcoreani. Tuttavia, un attacco preventivo in Corea del Nord manderebbe in frantumi l’ordine mondiale nato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale senza assicurare la fine del programma atomico di Kim, che subirebbe solo un temporaneo rallentamento.
Il motivo è abbastanza semplice: Washington non sa dove si trovano tutte le installazioni nucleari del regime nordcoreano. E anche se lo sapesse, molte di queste sfuggirebbero perché nascoste sottoterra o tra le montagne, fuori dal raggio di azione delle armi americane. L’attacco preventivo, inoltre, avrebbe conseguenze anche sui rapporti con gli alleati di Washington. Il Giappone e la Corea del Sud insistono sull’essere consultati in via preventiva. Agendo da sola, l’America di Trump potrebbe compromettere, se non addirittura rompere del tutto, l’alleanza con i partner del Pacifico che l’Amministrazione ha dichiarato di voler rafforzare in funzione anti-cinese.
Il summit tra Kim e Trump ha anche altre pericolose ripercussioni a livello mondiale. Accettare la Corea del Nord come potenza nucleare porterebbe a una legittimazione del suo programma atomico. I Paesi che stanno pensando di dare vita a un proprio programma sarebbero così maggiormente incitati a farlo.
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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