Oltre che il Medio Oriente, anche il Nord Africa rischia di subire nel breve periodo effetti diretti e indiretti della nuova escalation militare tra Israele e Hamas.
L’Egitto, in una situazione apparentemente più pacificata, è in realtà il Paese che cova maggiori rischi e sviluppi improvvisi. Sono in corso operazioni francesi di sostegno al governo attuale miranti alla repressione dei civili (France 24, 21 settembre). Più interessante e ibridato lo scenario cyber, dove le giornate 21-23 settembre degli Apple Zero-day sono state usate per inserire una «scatola mediana spyware» tra Telecom Egitto e la «scatola mediana di traffico» connessa allo smartphone della vittima di turno, un ex parlamentare egiziano, Ahmed Eltantawy (The Hacker news, 23 settembre). Rispetto ai tempi della Primavera araba e della scoperta di Facebook come potenziale leva insurrezionale, lo schema non è cambiato: questa volta Eltantawy è stato spiato perché aveva annunciato di candidarsi alle presidenziali del 2024 ed è in corso una defamation che può ritorcersi contro il governo attuale per come è stata raccontata dal laboratorio interdisciplinare canadese e dal Tag di Google (Threat Analysys Group). Lo spyware lavorava in modo simile a Pegasus (quello israeliano noto per vicende legate a Macron) e come questo è sulla blocklist americana: solo dallo scorso luglio, però.
Di fatto in Egitto il prezzo del cibo è salito nell’ultimo anno del 72% e l’inflazione in agosto ha toccato il 40%. Al Sisi governa dal 2013 anche grazie a triangolazioni con Arabia Saudita e Emirati Arabi (questi in particolare ricettacolo e scoglio di appoggio della finanza russa) ma da ultimo l’estromissione dei Fratelli Musulmani ha alienato le simpatie dei finanziatori all’estero. L’economia egiziana, lungi dallo sfruttare i 3 miliardi di dollari del Fmi, vara progetti distaccati da un reale e congruo utilizzo all’interno della società e vanno a beneficio della casta militare in crescita esponenziale. Emblematico in questo senso è il cantiere tolemaico della nuova amministrazione, 35 chilometri a est del Cairo. Come ha spiegato Timothy Kaldas del Tahrir Institute for Middle East Policy al Foglio, «nessuno può costruire influenza e arricchirsi senza fare affari con i militari. Il rischio di disordini cresce nonostante la repressione e gli arresti. L’Egitto non è più nemmeno una potenza locale». Oggi a Gaza l’Egitto non tocca palla: lo fa il Qatar (attivo anche a Tripoli, con l’Iran). In Sudan i suoi soldati sono stati difesi dagli Emirati Arabi. Piccoli esempi eloquenti che dimostrano come, per citare lo scrittore maronita Alessandro Spina, l’Egitto sia rimasto alle sue «notti del Cairo» senza fare ingresso a quella Babele che – purtroppo – è la modernità.
Sarà quindi l’Egitto l’ago della bussola per un futuro cambiamento nel quadrante medio-orientale: tra la Cina che rimette al suo posto Assad (Figaro, 21 settembre) e un’escalation tra Iran e Arabia Saudita per il nucleare a onta di ogni micro-progetto di pacificazione benedetto dai diplomatici di Pechino che, quando non ululano come lupi per cibarsi di vento, emettono un puro flatus vocis. Anche per questo la normalizzazione Israele-casa Saud non verrà affrettata dall’amministrazione Biden, a discapito di una perdita di voti alle prossime elezioni (Chatham House, 3 ottobre 2023).
Il Marocco si trova a gestire i postumi del terremoto del mese scorso. Come ha scritto Samia Errazzouki su Standford News, dopo il terremoto di sabato 9 settembre il lunedì successivo il re ancora non si era pronunciato, a riprova della «nube di opacità» che storicamente connota la comunicazione burocratica della dinastia alawita. A livello interno il terremoto si pone, con le giuste proporzioni rispetto all’uragano Katrina, come uno snodo per la comprensione e lo studio futuri del nesso politica-territorio-eventi climatici. In ottica storica poi la comunità etnica che più ne ha sofferto sono le popolazioni dell’Atlante, Imazighen, tagliati fuori dai super-progetti autostradali che non si spingono sino ai loro territori. Prima la discriminazione pro-araba nazionalista, e poi le differenze culturali nel costruire le case con parti importanti in argilla, hanno portato a questa situazione. Oltre a questa etnia abbiamo poi quella della catena del Rif, Hirak, che è scrupolosamente sorvegliata con Pegasus (bandito negli Stati Uniti) dalla corona e dai suoi apparati: la cosa è stata fermamente condannata con risoluzione del Parlamento anche dall’Unione Europea (19 febbraio) in relazione alla persecuzione dei giornalisti che indagavano sulle proteste nell’area. Connessa a questa azione europea c’è poi l’investigazione avviata il 15 dicembre 2022 in merito alle influenze perniciose di Qatar e Marocco sulle istituzioni del Vecchio continente.
Non più serena è poi la situazione algerina. Tra luglio e agosto si è creata una situazione imbarazzante per il ministro della Comunicazione, in seguito fatto licenziare, per presunto spionaggio emiratino o israeliano. I diplomatici emiratini sono stati espulsi ma la situazione interna non è stata pacificata. In Tunisia, invece, le influenze saudite continuano a mietere fortune tramite triangolazioni finanziarie; questo, congiunto al flusso non regolarizzato di migranti imputabili certamente anche al nuovo sovranismo tunisino, complica il quadro, destabilizzandolo.
Una questione di esteri che è anche interna è per l’Algeria l’incognita Niger. I due Paesi confinano per circa 998 chilometri e il Niger può espandersi anche verso altri 6 Paesi. L’Algeria, memore dell’insorgenza jihadista (1991-99) e consapevole che il Niger raccoglie circa 25 milioni di abitanti, ha adottato un approccio morbido in reazione ai fatti recenti, quasi preferendo la sagace prassi di governo americano che non ha parlato di «colpo di Stato». Come riportato da Responsbile Statecraft il 13 settembre, «il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti resta concentrato sugli sforzi diplomatici tesi a una risoluzione pacifica per preservare la democrazia nigeriana guadagnata con così tanta fatica. Vogliamo tutti una fine pacifica a questa crisi e il mantenimento dell’ordine costituzionale».
L’Algeria di fatto è stretta tra Burkina Faso e Mali che hanno agganciato il Niger in un’alleanza «simil-Nato» che riporta al punto sesto della sua carta che «qualsiasi attacco alla sovranità e all’integrità territoriale di una o più parti contraenti sarà considerato come un’aggressione contro le altre e farà scattare il dovere di assistenza e soccorso da parte di tutte loro, individualmente o collettivamente, compreso l’uso della forza armata per ripristinare e garantire la sicurezza all’interno dell’area coperta dall’Alleanza» (nota Ansa del 17 settembre). L’Algeria non può per motivi di cautela appoggiarsi all’Ecowas (Nigeria, Benin, Ghana tra gli altri) nell’opporsi al governo nigeriano, né ha colto il momentum per riavvicinarsi alla Francia che in questo scenario arretra perdendo terreno.
La Libia è spaccata. Il governo di Tobruk con Haftar è appoggiato da Egitto, Russia, Francia, Arabia Saudita, Siria (più Israele e Grecia). Haftar continua a rivelare la sua eredità da Guerra Fredda e i movimenti russi nell’area sono ampiamente manifesti da tempo. Come ha scritto J. Bermudez su Csis nell’ormai lontano 2020, «le immagini rilasciate a fine maggio da Africom mostravano lo schieramento di almeno 14 aerei da combattimento russi, tra cui Su-24, caccia MiG-29 e intercettori Su-35 di scorta giunti dalle basi in Russia e Siriaa quelle libiche di Al Khadim e Al Jufra. Un esame più attento dello schieramento presso la base aerea di Al Jufra rivela non soltanto un’espansione dell’attività aerea russa ma anche delle sue forze di terra, in particolare della compagnia Wagner».
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