Negli Stati Uniti il consenso per Trump rimane invariato attorno al 45%: nonostante l’impeachment e la crisi in Medio Oriente
La vendetta “telefonata” affinché i missili iraniani colpissero le basi americane in Iraq senza uccidere soldati nemici, offre qualche ragione di ottimismo. La risposta all’omicidio di Qasem Soleimaini non finisce qui: gli iraniani compiranno altre azioni in una regione dove gli obiettivi non mancano. Ma l’insieme di parole e opere fa legittimamente credere che per ottenere giustizia Teheran si affidi soprattutto al tempo e al sistema elettorale americano.
Sono molti nel mondo a sperare come gli iraniani che il primo martedì di quel mese – il 3 – gli americani scelgano un altro presidente. Il Pew Research Center di Washington ha quantificato l’attesa con un sondaggio in 33 paesi. La sintesi della sfiducia in Donald Trump è 64% a 26. Punta massima il Messico (89%), minime in Israele, Filippine, India e in tre europei: Polonia, Lituania e Ungheria. Più di ogni altro leader o presunto tale, il presidente americano è l’esempio e la sintesi della battaglia fra modello liberale e sovranismo in Occidente e in molte altre parti del mondo. Come l’instabilità mediorientale, questo scontro continuerà a dominare il quadro internazionale per molti anni ancora.
Sarà una lotta difficile se, come ancora ricorda il Pew Center, negli Stati Uniti il consenso per Trump rimane invariato attorno al 45%: nonostante l’impeachment e la palese incapacità di governare i suoi istinti nell’amministrare la potenza globale americana.
In un editoriale sul New York Times l’economista premio Nobel Paul Krugman si chiede «Come avrebbero reagito gli americani se una potenza straniera avesse assassinato Dick Cheney, affermando che aveva le mani sporche del sangue di centinaia di migliaia di iracheni?». Vicepresidente di George W. Bush, Cheney è uno dei principali responsabili della disastrosa invasione dell’Iraq, nel 2003. Non è irragionevole paragonare Cheney a Soleimaini.
In realtà gli americani avevano già risposto alla provocazione di Krugman, rieleggendo Bush nel 2004. In un’intervista poco prima di quel voto, il democratico John Kerry, lo sconfitto, sosteneva che gli Stati Uniti dovessero uscire dallo stato di emergenza permanente decretato dopo l’11 Settembre. Il terrorismo, diceva, è come la droga e la prostituzione: è una mnaccia permanente ma non esistenziale, che va combattuta con le leggi della democrazia e non solo con le armi. Sedici anni dopo, la “War on terror” continua a stravolgere la Costituzione, il primato del Congresso, le leggi degli Stati Uniti e l’idea che gli americani hanno del mondo.
È all’ombra di quell’emergenza che i satrapi del Medio Oriente (molti dei quali alleati di Washington) etichettano come terroristi e imprigionano i loro dissidenti; che il Bjp al governo in India decide che tutti i musulmani, il 20% della popolazione, sono potenziali terroristi; che per Bibi Netanyahu lo siano tutti i palestinesi. E che Donald Trump ordini la morte della personalità più importante dell’Iran dopo la guida suprema Khamenei. Salvo proporre un paio di giorni più tardi il dialogo e magari fra qualche mese minacciare ancora la guerra.
Fra un tweet e l’altro, come possono essere prese sul serio le dichiarazioni e le iniziative del presidente degli Stati Uniti, che parlino di pace o di armi, di stabilità dell’economia globale o di guerre commerciali? Il tono della presidenza di Donald Trump è stato capace di rendere più tollerabile persino il disastroso doppio mandato di George Bush. Il Csis, il Centro di studi strategici di Washington, ha definito l’attuale stato della politica estera americana “Era of Frenemy”: una stagione nella quale è difficile stabilire chi sia l’alleato e chi l’avversario, non più friend e nemmeno enemy. O entrambi.
Pubblicato sul Il Sole 23 Ore, il 10/1/2020
Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump risponde alle domande dei giornalisti, Casa Bianca, Washington, Stati Uniti, 9 maggio 2019. REUTERS/Jonathan Ernst
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