Diversi studi hanno dimostrato come nell’ultimo ventennio lo spazio digitale si sia evoluto creando al suo interno sub-realtà che hanno aperto le porte all’infiltrazione criminale così come a gruppi e organizzazioni terroristiche. Ciò che nel linguaggio anglosassone viene chiamato “Lack of knowledge” può essere definito come la nuova lacuna conoscitiva di un mondo virtuale privo di limiti fisici, al cui interno vi sono migliaia di canali e siti molto spesso nascosti all’interno della stessa rete. Parliamo del dark web, ed è qui che lo Stato Islamico (ma non solo) ha costruito buona parte della sua ascesa in rete.
Dal Maghreb al Medio Oriente, ISIS ha dimostrato in questi anni di aver riscosso maggior successo più dal punto di vista mediatico che dal punto di vista strategico-militare. Facendo leva sulle correnti intransigenti dell’Islam radicale di matrice wahhabita, il Califfato ha ampliato e potenziato il suo raggio d’azione sfruttando le nuove tecnologie e la cultura dell’immagine: una strategia comunicativa indubbiamente al passo coi tempi, alla quale va riconosciuta una rilevante influenza propagandistica.
Telegram
Se Twitter è il mezzo attraverso cui ISIS rivendica le stragi compiute in suo nome in tutto il mondo, tra i principali strumenti utilizzati per lo scambio di comunicazioni tra jihadisti c’è Telegram, il sistema di messaggistica istantanea provvisto di copertura e criptaggio dati molto avanzati. Una delle particolarità del funzionamento di questo sistema è l’autodistruzione dei messaggi una volta che sono stati letti dai destinatari, motivo per cui viene ritenuto un canale preferenziale da membri di organizzazione jihadiste o da semplici simpatizzanti. Ciò che è certo, ad oggi, è che Telegram ha consentito a migliaia di estremisti e radicalizzati di creare sinergie in modo rapido e condividere autonomamente informazioni su come compiere attentati senza l’obbligo di dover rispondere agli ordini di un leader o di un sovrintendente gerarchico. Nell’ottobre scorso Russia Today ha comunicato che Telegram ha bloccato 8.500 contatti associati a persone sospettate di avere rapporti con ambienti jihadisti. L’Iran e l’Indonesia hanno dichiarato che il servizio è a tutti gli effetti uno strumento di propaganda del radicalismo e del terrorismo. Ammissioni tardive e poco significative alla luce dell’uso massiccio di cui gli ambienti jihadisti continua a fare di questo sistema.
YouTube
L’utilizzo dei social media da parte dei jihadisti ha evidenziato anche YouTube come canale preferenziale, specie nell’Europa occidentale. Si tratta di un programma di condivisione di file video decentralizzato a basso costo, che garantisce tuttavia un riscontro notevole in termini di visualizzazioni. YouTube, in particolare, è la piattaforma più utilizzata in rete dai reclutatori per raggiungere nuovi segmenti di pubblico da indirizzare successivamente verso punti di contatto crittografati. Inizialmente la condivisione dei video fatti circolare nei network jihadisti sembrava il frutto di un movimento dal basso verso l’alto. Si è sempre trattato, invece, di una strategia di sensibilizzazione strettamente controllata dall’alto dalle organizzazioni jihadiste.
Le App
I ribelli jihadisti in Siria e Iraq utilizzano diversi tipi di App e piattaforme per la condivisione di file e per comunicare in modo istantaneo. Tra queste, le più utilizzate sono: Ask.fm, Facebook, Instagram, WhatsApp, PalTalk, Kik, Viber, JustPaste.it e Tumblr. Con l’utilizzo di un software di crittografia come TOR, le comunicazioni vengono protette e le informazioni di localizzazione oscurate.
I predicatori
Sul ruolo del web nella propaganda jihadista sono interessanti alcuni recenti studi condotti da ricercatori del King’s College di Londra. L’istituto britannico ha riscontrato che, specie per individui e gruppi di persone che non vivono in zone di combattimento, i divulgatori più influenti sono nella maggior parte dei casi le figure clericali. Vale da esempio esplicativo il caso del predicatore londinese Anjem Choudary, condannato il 28 luglio del 2016 a 10 anni di carcere per aver portato avanti attività di sostegno all’ISIS. Con oltre 7.000 follower, Anjem Choudary si è distinto con i suoi sermoni come una delle figure più influenti nel processo di radicalizzazione sul web.
Al Qaeda prima di ISIS
Non solo per la propaganda tradizionale, ma anche per quella sul web per diversi aspetti Al Qaeda ha rappresentato un modello base da cui ha preso ispirazione il Califfato. Younes Tsouli, ragazzo di 23 anni più comunemente conosciuto con lo pseudonimo che usava su internet “Irhabi 007”, tra il 2003 e il 2007 (anno in cui è stato arrestato) è stato molto attivo sul web per conto dell’organizzazione fondata da Osama Bin Laden. Ha partecipato e animato vari forum popolati da simpatizzanti degli ambienti estremisti, ha caricato e condiviso foto, video e manuali di istruzione sull’hacking. Nel 2005 è stato nominato amministratore del forum Al Ansar, piattaforma in cui ha iniziato a pubblicare manuali per la fabbricazione di bombe e dettagli relativi alla conduzione di attentati kamikaze.
Esistono delle contromisure?
La domanda che molti si pongono è se sia possibile interrompere le reti criminali online prendendo di mira componenti critici dei sistemi attraverso cui i jihadisti comunicano e si scambiano informazioni tra loro? La risposta rimanda alla nuova generazione di hacker di cui si stanno servendo in modo sempre più strutturato le forze anti-terrorismo dei Paesi occidentali ma non solo (su tutti vale il caso di Israele).
Come specifica il centro di ricerca ITSTIME (Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies), l’attacco cyber sferrato lo scorso 17 novembre da un gruppo di giovani hacker contro siti web collegati all’agenzia di stampa ufficiale del Califfato AMAQ, tramite l’operazione #ParalizyingAmaq, rappresenta una controffensiva allo Stato Islamico che ha messo in difficoltà la sua forza mediatica. L’esito della cyber war in corso tra Occidente e Stato Islamico passa anche da qui.
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