Quando in Sudafrica finì l’aparteid, il vescovo Desmond Tutu, un eroe della lotta alla segregazione razziale, creò la Commissione per la verità e la riconciliazione. Mezzo secolo di persecuzioni bianche contro la maggioranza nera e la reazione a volte violenta di quest’ultima, avevano lasciato una montagna di odio e di sfiducia che avrebbe potuto fermare il miracolo creato da Nelson Mandela e dallo stesso Tutu.
La Commissione ebbe il compito di salvare la “Nazione Arcobaleno”: nessuna caccia ai colpevoli né vendette di stato ma riconciliazione. I giudici itineranti aprivano tribunali senza promettere sentenze. Chi aveva commesso un crimine si presentava in pubblico, confessava ed era assolto fra i pianti e il perdono delle vittime. Fu un’autocoscienza nazionale dolorosa che non sanò del tutto le ferite: venne sconfitto il desiderio di vendetta, non la diffidenza razziale. Ma l’anima del paese fu salva.
Mutatis Mutandis, dovremmo fare anche noi qualcosa del genere, quando torneremo alla vita normale dopo la pandemia. “Non è il momento delle polemiche”, ripetono i politici di ogni partito, affilando i coltelli per il giorno della resa dei conti. Il governo centrale, le opposizioni, i presidenti di regione, i sindaci e gli assessori di centro-destra e centro-sinistra; gli scienziati e i medici famosi, e quelli che non lo erano ma volevano farsi notare, la Protezione Civile e i direttori d’ospedale.
Tutti hanno commesso errori che dovranno essere individuati per reagire meglio al prossimo virus. Ma tutti dovranno essere perdonati. Nessuno poteva prevedere il disastro che stiamo vivendo né avere la formula per organizzarsi e fermarlo. Una Commissione per la verità e la riconciliazione dovrebbe essere creata in Italia, in Spagna, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti , India: ovunque ci siano forme di democrazia. In paesi come l’Iran, la Cina o la Russia non servirebbe perché lì esiste solo la giustizia di regime.
Ecco: il discrimine è la democrazia, non meno minacciata della nostra salute e delle nostre economie. Non c’è paese democratico che non sia arrivato tardi. Lo possiamo definire solo col senno di poi perché governanti nazionali e amministratori locali hanno dovuto limitare forme importanti, pubbliche e private, del nostro vivere libero. Quando Xi Jinping ha blindato lo Hubei da un giorno all’altro, non aveva bisogno di chiedere il parere dei 60 milioni di abitanti di quella provincia. Il lockdown dei paesi democratici non poteva che essere incrementale per convincere, mantenere il consenso e la tenuta sociale.
Costretto dall’emergenza a intaccare alcune forme essenziali delle nostre libertà, più di un capo di governo ha cercato di fare il furbo. Bibi Netanyahu ha provato a riscrivere i risultati delle elezioni che si erano appena svolte; Donald Trump a continuare ad imporre la sua agenda politica ed economica, sottovalutando il pericolo. Ma i loro sistemi democratici funzionavano, c’erano corti supreme e una stampa che facevano il loro dovere. Anche loro, adesso, riconosciuti gli errori, stanno combattendo con unghie e denti per fermare il virus.
Poi c’è Victòr Orban che invece ha fatto un colpo di stato. Fra le tante cose – oltre a un potere assoluto e illimitato nel tempo – il “suo” parlamento gli ha anche riconosciuto il diritto d’incarcerare chiunque (quel che resta della stampa) dia del contagio resoconti diversi dai suoi. Il Virus di Stato nel cuore d’Europa: un cancro peggiore dell’egoismo economico di alcuni membri della Ue. Orban non sorprende. Il suo è il culmine di quella finzione che lui chiamava “democrazia illiberale”: come dire deserto affollato, acqua secca. Finalmente c’è solo l’illiberalità.
Ciò che sconcerta sono le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. “Saluto con rispetto la libera scelta del parlamento ungherese”, dice Salvini, ignorando che anche nel 1933 i nazisti vinsero legittimamente le elezioni. Forse anche un bravo amministratore leghista come Luca Zaia si sarà chiesto come avremmo affrontato la crisi del virus con Salvini al governo. Meloni ha impropriamente paragonato il potere senza fine di Orban a quello che si è assunto Giuseppe Conte con decreti limitati nel tempo.
Qualche tempo fa, nel tentativo confuso di mettere insieme passato e presente, Bruno Vespa aveva pubblicato un libro che spiegava “perché il fascismo non può tornare”. Come se esistesse un solo fascismo, quello del XX secolo con orbace, Balilla e otto milioni di baionette. Come tutti i virus, anche quello fascista muta. Quello del XXI secolo non richiede divise, forse nemmeno la stessa brutalità sanguinaria dell’originale. Possiamo chiamarlo con un altro nome: sovranismo o anche Gigi se volete. Ma è ugualmente privo di libertà, tolleranza, rispetto della minoranza politica e di ogni altra diversità. Per questo virus non servirà una commissione che perdoni ma giudici che puniscano.
Pubblicato su Slow News, blog di Ugo Tramballi su Il Sole 24 ore
Hungarian Prime Minister Viktor Orban arrives for the plenary session of the Parliament in Budapest, Hungary, on March 30, 2020. (Zoltan Mathe/MTI via AP)
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