Con necessario realismo, Luigi Di Maio dice che col regime siriano occorre parlare e che in Medio Oriente la Russia è un partner non meno fondamentale degli Stati Uniti. È bello vedere che anche il ministro degli Esteri italiano parla di questioni internazionali. Nella nostra campagna elettorale permanente e pervasiva, siamo abituati a vederlo in ogni angolo d’Italia mentre il capo della diplomazia dovrebbe essere più notato in ogni angolo del mondo.
Il miracolo è avvenuto alla quinta edizione di MED, i “Dialogi mediterranei” che la Farnesina e l’Ispi, l’Istituto di studi di politica internazionale, organizzano a Roma. Un utile confronto politico, economico e culturale fra i protagonisti di un mare che – Golfo compreso – è la fonte principale dell’interesse nazionale italiano. Non sempre però i comportamenti del nostro sistema politico supportano il ruolo e l’autorevolezza che l’Italia dovrebbe necessariamente avere in questa area del mondo.
In cinque edizioni di MED, i ministri degli esteri di questa parte del mondo e oltre (quest’anno il russo Sergey Lavrov e l’indiano Subrahmanyam Jaishankar) hanno incontrato quattro responsabili della diplomazia italiana: due volte Gentiloni, Alfano, Moavero e Di Maio. La continuità della politica estera trascende la persona e dovrebbe anche garantire la continuità delle sue scelte fra governi di colore diverso. Ma una certa stabilità aiuta a conquistare o mantenere autorevolezza.
Che Luigi Di Maio sia un politico senza dimestichezza internazionale, non è il problema. Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, due animali politici puri, sono forse stati i migliori ministri degli Esteri dopo Andreotti. Al contrario, i tecnici o gli “esperti” nominati in quella carica, hanno raramente lasciato un segno. Ma anche un paese dagli orizzonti non sconfinati come l’Italia, ha bisogno di un ministro degli Esteri che non sia part-time.
Di Maio ha giustamente impostato il suo ministero sulla promozione dell’economia italiana: dopo la Cina nel 2019, nell’anno che verrà ha promesso di sviluppare gli scambi anche col gigante asiatico indiano. A dispetto del deficit e della difficoltà d’impostare ogni anno una manovra, l’Italia nel mondo è una credibile potenza economica. Ma ha anche una geopolitica che va affermata con orgoglio, non sempre cercando consenso e simpatia a tutti i costi, a volte sapendo alzare la voce e dire dei “no”. Per esempio alla Turchia che con la sua marina militare impedisce all’Eni di fare il suo lavoro di ricerca energetica nel mare di Cipro.
Il MED non è un summit dove vengono prese decisioni ma solo l’occasione di mostrarsi e confrontarsi: eventualmente per avanzare proposte, a volte per fare passerella da vincitore. Sergey Lavrov ha dimostrato di essere troppo furbo per rispondere con intelligenza a domande impegnative. O se preferite, ha la grande qualità diplomatica di parlare molto senza dire nulla.
MED è stato anche utile per vedere quanto i leader arabi invitati continuino a fingere di non capire le cause del fallimento dei loro regimi. Gebran Bassel, ministro degli Esteri libanese solo perché è il genero del presidente Aoun (dai giovani manifestanti è il più detestato fra i volti del potere che vogliono cambiare) ha ignorato ciò che sta accadendo nel suo paese. Per Ahmed Aboul Gheit, il segretario egiziano della Lega Araba, le Primavere del 2011 sono come quelle del 2019: complotti occidentali.
Con il determinante aiuto della Russia, Bashar Assad ha vinto in larga parte la guerra civile siriana e ora è un necessario interlocutore per la ricostruzione. Diventato qualcuno con cui dover parlare, bisognerebbe ricordare al dittatore che ha bombardato e gasato la sua popolazione civile, di mostrare moderazione e magari farsi da parte se mai ci saranno elezioni. Tuttavia quando vincono, i rais del Medio Oriente non mostrano magnanimità ma cercano vendetta: per questo, a dispetto dell’”agenda positiva” proposta da MED, la regione resta la più instabile del mondo, principale giacimento di guerre e di profughi, oltre che di petrolio.
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