L’invasione militare russa dell’Ucraina e le ripetute minacce di attacchi con armi nucleari da parte da parte di Mosca contro l’Occidente, riportano in primo piano il tema della necessità dei Paesi membri dell’Ue di dotarsi di un esercito europeo. Un argomento caldo, ma non di non semplice trattazione. Dalla Unint, l’Università degli Studi Internazionali di Roma arriva un ausilio di lettura utile per provare a capirne di più. Il libro si intitola Difesa europea. La posta in gioco, è curato da Ciro Sbailò e contiene gli interventi di Fabio Bisogni, Giuseppe Bono, Lucio Caracciolo, Claudio Graziano, Roberta Pinotti, Pino Pisicchio, Alessandro Profumo, Annita Sciacovelli e Arianna Vedaschi. Babilon Magazine ne ha parlato con il professor Sbailò, ordinario di Diritto pubblico comparato e preside della Facoltà di Scienze della Politica e delle Dinamiche Psico-sociali della Unint.
I Paesi europei dispongono nel loro insieme del più grande budget di difesa al mondo, secondo solo a quello degli Stati Uniti. Perché però finora non si sono dotati di un esercito europeo? Sul piano giuridico una difesa comunitaria dell’Unione è concretamente possibile?
Se seguiamo la sintassi giuridica dell’Unione Europea, basata sul principio dell’unanimità ogni volta che si toccano questioni che riguardano la sovranità, un esercito comune europeo non ci sarà mai. E ciò perché basta il voto contrario di un suo solo Stato membro, fosse anche il piccolo Lussemburgo, per fermare tutto. Alla formazione di una difesa europea, da attuare secondo meccanismi tra l’altro ampiamente già adottati in Europa ad esempio in politica estera, si arriverà dunque attraverso accordi bilaterali tra Paesi interessati a questo obiettivo. Questi Paesi andranno così a costruire una massa critica sulla quale, poi, tutti gli altri Paesi potrebbero andare a convergere. Perché questo processo si avvii, è però necessario il protagonismo di Francia, Germania, Italia e in, seconda battuta, anche della Spagna, che potrebbero iniziare a muoversi in tal senso – e già lo stanno facendo ad esempio Roma e Parigi con il Trattato del Quirinale – attraverso intese di cooperazione, esercitazioni congiunte, condivisione di risorse. Questa è la strada, e non certo passare per i meccanismi decisionali classici dell’Unione Europea.
La storia spinge però verso una sovranità europea più condivisa, efficace, reale. Perché ci si arrivi è necessario il tassello della difesa comune?
Andiamo verso questa esigenza per le seguenti ragioni. In primo luogo viviamo in un mondo altamente conflittuale. C’è la guerra in Ucraina ma ci sono anche, dentro questo conflitto e non solo, guerre asimmetriche e ibride. La situazione attuale non è semplicisticamente riconducibile dentro la liquefazione dello spazio politico, ma neanche così “confortevole” qual è stato il mondo bipolare durante la Guerra Fredda. Il secondo punto è la crescente facilità di escalation localizzate e circoscritte, il che oggi è possibile grazie a uno sviluppo enorme della tecnologia militare. Enorme al punto che consente di limitare dentro uno spazio determinato effetti devastanti senza scatenare una reazione a catena di carattere globale. Altro punto è lo sviluppo di strategie geopolitiche che hanno tutte in comune un dato anti-occidentale e in parte anti-europeo e un risvolto militare armato: mi riferisco alla minaccia jihadista, ai conflitti nel mondo sunnita affacciato sul Mediterraneo e, ovviamente, alla Russia e soprattutto alla Cina. La Cina non è più il Paese del soft power sprigionato attraverso il progetto globale della Nuova Via della Seta. Ora Pechino sta passando all’adozione dell’hard power nella zona indo-pacifica, lo dimostrano gli investimenti fatti per rafforzare la sua Marina militare che era sempre stata un suo punto debole. E lo dimostrano gli accordi politici locali che sta stringendo per occupare zone tradizionalmente sotto la sfera di influenza atlantica.
In questo rimescolamento globale delle carte in tavola, la Nato che fa?
La Nato, essendo strettamente e giustamente legata agli Usa, proietta la propria forza principalmente sull’area indo-pacifica, al netto dell’attuale emergenza ucraina. Gli interessi della Nato e quelli dell’Unione Europea, pur non essendo mai in contraddizione, possono non essere sovrapponibili. Prendiamo l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, un fatto positivo che però ha comportato un cedimento ad Ankara sul fronte della questione curda, cosa che l’Unione Europea probabilmente non avrebbe voluto. Inoltre la Nato non può concentrarsi sul Mediterraneo che, invece, è una delle principali aree di interesse dell’Unione Europea.
La formazione di un esercito europeo comune consentirebbe ai Paesi membri dell’Ue di gestire in modo più efficace la crisi migratoria che si riversa sul Mediterraneo?
Questa questione è parte integrante della difesa europea. La difesa europea è un problema di politicizzazione dello spazio pubblico dell’Ue che al momento fatica a progredire perché l’Ue è la somma di più volontà, non riesce a darsi una sintesi politica e questo provoca dei disastri enormi. Il flusso migratorio è un problema politico e quindi, in quanto tale, non può essere affrontato con categorie di natura umanitaria. Non si può guardare agli immigrati come a persone in cerca di protezione. Lo si poteva fare negli anni Novanta quando i numeri del fenomeno erano nettamente inferiori. Adesso ci sono milioni di persone che si muovono anche dentro uno schema geopolitico, nel senso che vengono utilizzate come strumenti di pressione nei confronti di altre potenze politiche. Ieri Cuba, poi Gheddafi, poi la Tunisia, poi Erdogan, infine Lukashenko in Bielorussia. Il nostro punto debole è che noi, come Europa, non avendo una visione politica comune di fronte alla questione migratoria facciamo scattare il paradigma giuridico e giurisdizionale. Ma così facendo si va incontro a contraddizioni laceranti.
Ci faccia un esempio?
In teoria tutta l’Europa dovrebbe partecipare in modo equo alla gestione di questo problema umanitario alle nostre porte. Ma così non è. La Francia, in primis, dice che contribuisce a ricollocare i migranti ma solo quelli che risultano eleggibili alla protezione internazionale. Questa percentuale, però, è tra lo 0,5% e il 7% del totale degli immigrati. Tutti gli altri, per l’attuale configurazione giuridica europea sulla gestione dei flussi migratori, restano su territorio italiano. E l’Italia si deve ingegnare ogni volta a trovare soluzioni come la protezione umanitaria, che è pessima ma non si può fare diversamente perché altrimenti si toglierebbe il tampone a una ferita.
Come se ne esce?
All’Europa serve la potenza di fuoco necessaria per trattare con i Paesi dell’area, con le bande libiche e le forze che operano nel Sahel, andando così all’origine della soluzione del problema. Ma per trattare a questi livelli l’Europa deve riconoscersi in una comune soggettività politica, ma questo oggi non accade. E poi serve un esercito comune per dare forza a questa soggettività politica comune. Abbiamo il budget per crearlo, abbiamo le filiere belliche produttive che però sono sparpagliate e invece andrebbero messe a sistema, abbiamo il know how in cyber intelligence che però per essere realmente condiviso va normato.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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