Rahul Gandhi si è dimesso da capo del Partito del Congresso, il più importante all’opposizione in India. Ha spiegato i motivi della sua decisione in una lettera di quattro pagine postata sui social, nella quale si è assunto la responsabilità del fallimento del partito alle ultime elezioni. A maggio il primo ministro uscente Narendra Modi ha ottenuto una vittoria netta alle diciassettesime elezioni generali. Rahul Gandhi era stato sconfitto nel collegio in cui era candidato, quello dello Uttar Pradesh. Il Congress aveva ottenuto buoni risultati alle elezioni negli Stati Rajasthan, Madhya, Pradesh e Chhattisgarh, ma questi successi non si sono tradotti in un vantaggio alle elezioni di maggio 2019. Rahul Gandhi ha scritto in questa lunga lettera che il partito deve comprendere i problemi che hanno condotto alla sconfitta, spiegando che la ricostruzione comporta l’assunzione di decisioni difficili che traggono origine dal risultato elettorale del 2019. Potrebbe essere la fine di una dinastia, la famiglia Nehru-Gandhi è stata determinante nella creazione dell’India contemporanea, dalla fine dell’era colonniale britannica in poi. Scrive Ugo Tramballi:
In democrazia, quando un leader guida un partito alla peggiore sconfitta elettorale della sua storia, e lo fa consecutivamente per due volte, si dimette. Nessuno obietterebbe, se non per chiedersi perché non l’avesse già fatto dopo il primo disastro. Ma non è così facile in India, terra di dinastie politiche.
Rahul Gandhi aveva tentato di fare un passo indietro a fine maggio, subito dopo che il Congress – il partito fondatore dell’India moderna – aveva conquistato solo 52 seggi dei 542 della Lok Sabha, il parlamento di Delhi. Lo aveva fermato il gruppo dirigente del partito. E la base aveva organizzato uno sciopero della fame per costringere il leader a cambiare idea, guidata dai soliti sicofanti che già avevano blandito Indira Gandhi, suo figlio Rajiv, la nuora Sonia e il nipote Rahul. Questa volta le dimissioni sono irrevocabili, apparentemente, accompagnate da una lettera aperta di quattro pagine: “Ho lottato per difendere gli ideali sui quali l’India è stata costruita”.
Ma se il Congress non riesce a liberarsi dei Gandhi, i Gandhi non riescono a liberarsi del Congress. Del resto il 30% dei deputati del nuovo parlamento viene da famiglie politiche consolidate, di ogni orientamento ideologico. Era così anche nelle precedenti Lok Sabha. Nelle assemblee elettive dei 29 stati dell’Unione il nepotismo ha percentuali ancora più alte.
La dinastia Nehru-Gandhi è però unica: per longevità e per quanto sia stata determinante nella creazione e la conduzione dell’India contemporanea. La famiglia politica non nasce con Indira Gandhi (il Mahatma non c’entra: da giovane Indira sposò un attivista del Congress, Feroze Gandhi). La famiglia politica inizia con Motilal Nehru e con suo figlio Jawaharlal, il padre di Indira. Tutti, da Motilal a Rahul passando per Sonia, sono stati alla presidenza del Congress costituito a Bombay il 22 dicembre 1885. Dei suoi primi 72 delegati 39 erano avvocati, 14 giornalisti, uno medico. Motilal e Jawaharlal erano avvocati; lo è anche Rahul.
La somma di una quarantina d’anni di presidenza non dice abbastanza della presa dei Nehru-Gandhi sul Congress. A partire dal 1919 quando Motilal fu eletto presidente per la prima volta, quasi tutti i successivi 46 presidenti non della famiglia, erano al loro posto per volere della famiglia.
In qualche modo, dunque, le dimissioni di Rahul sono una rivoluzione. Ma è ancora presto per dirlo. Serve “al più presto” una nuova guida, invoca l’ex giovane dimissionario: ha 49 anni. Ma il Congress Working Committee che deve scegliere il nuovo presidente non viene eletto da decenni: i suoi membri sono stati tutti scelti dalla famiglia. Non è escluso che sotto le pressioni di Sonia Gandhi, cerchino di riconfermare Rahul. O nominino Priyanka Gandhi, sua sorella minore, l’ultima con quel nome che potrebbe continuare la stirpe. Rahul non ha figli, Priyanka due ma portano il nome del marito, Robert Vadra.
Perché a dispetto dell’onesta umiltà di Rahul (“mi assumo la responsabilità della sconfitta elettorale”), il partito resta nelle mani di Sonia. È parte del suo straordinario Karma; è l’argenteria laica e democratica di famiglia che dopo la morte del marito Rajiv, si è assunta il compito di preservare per conto dei Nehru-Gandhi e dell’India che invece sta inesorabilmente scivolando in una dimensione nazional-religiosa hindu.
Rajiv non voleva succedere alla madre Indira, anche lei uccisa in un attentato; Sonia non voleva prendere il posto del marito: per due volte ha rifiutato la guida della nazione. Rahul è un clamoroso caso di mediocrità politica: non ha carisma, poche idee, è timido in un paese dove la politica è potere, arte e spettacolo, e non parla correttamente l’hindi.
Di tutti, solo Priyanka sembra essere realmente attratta dalla cosa pubblica e avere le doti della “Dea Durga a cavallo di una tigre”, come gli indiani chiamavano Indira, adorandola e odiandola. Ma scesa in campo ad aiutare la campagna del fratello, Priyanka non ha dimostrato di essere il valore aggiunto che serviva al Congress.
Se il partito resta senza un Gandhi, rischia di frantumarsi in tante ambizioni velleitarie di carneadi e apparatchik. Ma se di nuovo ripiega su un Gandhi, se non ha il coraggio di trovare al suo interno personalità nuove, l’irrilevanza è ancora più certa.
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