Inaugurare una nuova stagione di dialogo con il mondo sunnita e ottenerne l’impegno nella lotta al terrorismo jihadista. Rinvigorire i rapporti con Israele raffreddati durante gli otto anni di presidenza Obama, favorendo Gerusalemme capitale. Prendere le distanze dall’Iran e gli sciiti, lasciandosi alle spalle il patto sul nucleare con Teheran. Riposizionare l’America in Medio Oriente.
Erano questi gli obiettivi di politica estera che Donald Trump si era prefisso e che, giorno dopo giorno, sta riuscendo a concretizzare. C’è chi vede in queste scelte una debolezza della sua leadership, chi la volontà d’incendiare un’intera regione, chi un’agenda dettata da dilettantismo. Forse, ma in ogni casto erano tutti obiettivi dichiarati sin dalla campagna elettorale. Che Donald Trump ha stravinto e ha perciò messo in atto già da tempo. Per comprenderlo meglio, però, vale la pena di tornare indietro di qualche mese. A maggio del 2017, per la precisione. Epoca dello storico viaggio in Medio Oriente del neopresidente.
Con il pragmatismo dell’uomo d’affari e le imbeccate dei suoi due consiglieri di punta – il generale Herbert Raymond McMaster per la sicurezza nazionale, e suo genero Jared Kushner per il commercio e il Medio Oriente – nelle visite a Riad e Tel Aviv della scorsa primavera, Donald Trump ha letteralmente capovolto la precedente strategia degli Stati Uniti nello scacchiere. Un cambio di passo repentino in una delle regioni più tormentate al mondo, che dà all’America un’immagine più radicale e al tempo stesso la tira fuori dalle sabbie mobili in cui l’aveva trascinata Obama, promettendo alleanze più vantaggiose per gli interessi del paese nell’area.
H.R. McMaster è stato “l’uomo in più” di Trump nella preparazione della prima parte del viaggio. Profondo conoscitore del Medio Oriente – ha partecipato alla prima Guerra del Golfo del 1991 e all’invasione dell’Iraq del 2003 che portò alla caduta di Saddam Hussein – il generale ha tracciato il percorso diplomatico per il presidente americano, traghettandolo da Riad a Tel Aviv senza andare incontro a particolari critiche o imprevisti. E i suoi buoni uffici hanno pagato subito in termini di alleanze politiche e accordi commerciali.
A Riad non solo affari
Dei giorni trascorsi a Riad, culminati con l’inedito ballo di Trump alla tradizionale danza delle spade di Casa Saud, si ricorda principalmente il contratto monstre che gli USA hanno firmato con l’Arabia Saudita: 110 miliardi di dollari per la vendita di armi (che arriveranno a 350 miliardi in dieci anni) e altri 50 per circa intese energetiche, che permetteranno al colosso degli idrocarburi Saudi Aramco di far leva sul know how delle società statunitensi per avviare un piano di diversificazione delle sue risorse e affrancarsi gradualmente dalle sole esportazioni di petrolio.
Il momento nevralgico della visita a Riad, tuttavia, è stato l’incontro di Trump con i leader di oltre 50 paesi del mondo sunnita. Parlando di fronte a loro, coinvolgendoli in una nuova alleanza nella «lotta tra il bene e il male» e «contro il terrorismo e l’estremismo», il presidente americano ha fatto una scelta di campo netta.
Da un lato, si è apertamente schierato al fianco di quei paesi che dispongono dei mezzi politici, economici e coercitivi, oltreché dell’autorità teologica per impedire che il terrorismo continui a trarre forza dalla loro connivenza (è il caso dell’Egitto laico del presidente Al Sisi e del suo contatto diretto con la moschea Al Azhar, massima istituzione dell’Islam sunnita). Dall’altro, ha preso definitivamente le distanze da un “alleato” scomodo come l’Iran, bastione del mondo sciita, compiacendo Israele ma anche e soprattutto Riad stessa.
Il tycoon ha inoltre offerto ai paesi sunniti una cosa cui tengono molto, ossia la fine del progetto di esportazione della democrazia occidentale nelle loro società, su cui si sono intestarditi – fallendo miseramente – sia George W. Bush che Barack Obama. Di certo, gli USA di Donald Trump non saranno più guardiani di ciò che l’Occidente considera “giusto” o “sbagliato” rispetto al Medio Oriente, all’Africa e all’Asia Centrale. Anche se questo andrà a scapito di tematiche come la tutela dei diritti umani e delle libertà individuali e collettive. Per capirlo, basti citare l’abbandono da parte degli Stati Uniti dell’accordo Onu sui migranti, un patto mondiale che però non è più «in linea con nostre politiche sull’immigrazione», come ha riferito l’ambasciatrice USA Nikki Haley al Palazzo di Vetro di New York lo scorso 3 dicembre.
Israele, patto per isolare l’Iran
Nello spostamento da Riad a Tel Aviv,Trump ha invece mandato in prima linea suo genero Jared Kushner, consigliere per il Commercio e il Medio Oriente nonché marito della figlia prediletta Ivanka. Ebreo ortodosso, erede di una storica famiglia ebrea, Kushner è considerato dal presidente l’uomo giusto per ricucire i rapporti con Israele, dopo otto anni di diffidenze.
La sua presenza ha suggellato il ponte diplomatico tra Riad e Tel Aviv, limando le distanze tra i due storici “nemici” in nome dell’isolamento del comune nemico iraniano. Ma il presidente è andato oltre e ha dato corpo alla promessa di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme.
Quanto al dialogo da tenere vivo tra Israele e Palestina, questo era apparso un fatto secondario sin dal primo momento. La pratica è stata affidata ai buoni uffici di Riad, che mantiene un potere ricattatorio nei confronti di Abu Mazen, leader di Al Fatah e presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Mettere tutti d’accordo non era chiaramente un obiettivo a cui Trump poteva né voleva realisticamente ambire. Aver riposizionato gli USA in Medio Oriente e aver fatto scalare a Washington qualche posizione nel confronto globale con la Russia, invece, per l’America del dopo Obama è già un risultato significativo che la nuova Amministrazione si può appuntare al petto. In qualunque modo la si giudichi, la linea politica di Donald Trump sul Medio Oriente è tutto meno che ambigua.
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