Nessuna sorpresa al termine delle elezioni presidenziali egiziane, le più scontate del 2018 al pari di quelle che in Russia, lo scorso 18 marzo, hanno visto trionfare il presidente uscente Vladimir Putin. È andata ancora “meglio” in Egitto ad Abdel Fattah Al Sisi che stando ai dati definitivi diffusi dalla commissione elettorale egiziana ha ottenuto un secondo mandato da presidente con il 97,08% dei consensi, qualche punto in più rispetto alla vittoria del 2014 ottenuta con il 96,91%.
L’affluenza nella tre giorni del voto tra il 26 e il 28 marzo è stata del 41,5%. Alle urne si sono recati 24.254.152 egiziani: 21.835.387 ha votato Al Sisi, solo 656.534 hanno scelto il suo unico sfidante, il leader del partito El-Ghad Moussa Moustafa (nonché dichiarato sostenitore del presidente), mentre le schede annullate sono state 1.762.231, il 7,2% del totale.
Luci e ombre della rielezione
L’atteso plebiscito riservato dal popolo egiziano ad Al Sisi non cela però del tutto il calo di popolarità del presidente rispetto ai mesi trionfali che tra il luglio del 2013 e la primavera del 2014 lo videro prima generale golpista e, successivamente, presidente eletto dalla stragrande maggioranza del popolo egiziano.
Da allora le promesse di dare sicurezza al Paese e di rilanciare l’economia non sono state mantenute. Il governo Al Sisi, semmai, è stato segnato dalla feroce repressione di ogni forma di dissenso, a cominciare da quello dei Fratelli Musulmani; dagli attentati attraverso cui ISIS ha rimarcato la propria presenza nella penisola del Sinai attraverso la sua estensione Wilayat Sinai (Provincia Islamica del Sinai) e soffocato l’unica grande ricchezza del Paese, vale a dire il turismo; da una serie di scandali e vicende poco chiare che hanno offuscato l’immagine del presidente sia in patria che all’estero, su tutti l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni e la discussa cessione delle isole del Mar Rosso all’Arabia Saudita.
È vero, al contempo, che Al Sisi resta un “alleato necessario” per l’Occidente sulla sponda sud del Mediterraneo sia sul fronte della lotta al terrorismo jihadista che sul piano economico. Per l’Italia ne è convinta in particolare ENI, che nell’estate del 2015 in acque egiziane ha scoperto Zohr, il più grande giacimento di gas mai rinvenuto nel Mar Mediterraneo.
Chi sono i nemici di Al Sisi
Nei mesi di campagna elettorale Al Sisi si è sbarazzato senza difficoltà di chiunque nei giorni del voto avrebbe potuto anche minimamente impensierirlo. Uno dopo l’altro i suoi sfidanti più quotati sono stati costretti a farsi da parte: l’ex primo ministro Ahmed Chafiq, l’ex capo di stato maggiore Sami Anan, il nipote dell’ex presidente Anwar Sadat Mohamed Anouar Sadat, l’avvocato per i diritti umani Khaled Ali.
Ottenuto questo secondo mandato, adesso sul tavolo del presidente si presentano altri dossier aperti, a cominciare da quello che riguarda quei militari che si sono spogliati dell’uniforme dell’esercito per ostacolarne l’ascesa. Si tratta di ufficiali di alto e medio livello che con la caduta di Hosni Mubarak nel 2011, e soprattutto dopo la destituzione di Mohammed Morsi nel 2013, hanno deciso di voltare le spalle allo Stato e abbracciare la causa di organizzazioni islamiste fuorilegge o di gruppi jihadisti.
Tra questi c’è Emad al-Din Abdel Hamid, ex comandante dell’esercito che il 20 ottobre scorso, alla guida di un commando formato da una dozzina di uomini armati, ha teso un’imboscata ad agenti della polizia e militari. Nell’attacco, poi rivendicato dal gruppo Ansar Al Islam, sarebbero morti oltre quindici membri delle forze di sicurezza egiziane, compresi anche alcuni ufficiali di alto rango. Secondo fonti dell’Apparato d’Informazioni Generali (Mukhabaràt), chi è entrato in azione sapeva come e quando colpire. Stando alla testimonianza di uno dei sopravvissuti all’agguato, Abdel Hamid avrebbe dato prova delle sue doti di tiratore. «L’ho visto colpire da lontano alla testa un ufficiale – ha dichiarato il testimone all’agenzia Reuters – nonostante questi fosse nascosto dietro un’auto».
Poche settimane dopo l’attacco Abdel Hamid è stato ucciso in un raid aereo dell’aviazione egiziana. Ma la sua morte non ha scoraggiato altri membri dell’esercito e della polizia a passare nelle fila di Ansar Al Islam. Nonostante sia meno appariscente sul piano mediatico rispetto ad altre formazioni terroristiche che operano in Egitto, a cominciare da ISIS nel Sinai (Wilayat Sinai), Ansar Al Islam ha già effettuato diversi attacchi nel Paese e, soprattutto, può fare leva su rapporti consolidati con Al Qaeda. Nel 2013 il gruppo è stato accusato di aver tentato di assassinare l’allora ministro dell’Interno egiziano Mohammed Ibrahim. Due anni dopo, nel 2015, si riteneva invece fosse dietro l’uccisione del procuratore generale Hisham Barakat, nonostante il suo omicidio fosse stato rivendicato da Moqawma al Shabia (Resistenza Pubblica), formazione vicina alla Fratellanza Musulmana.
Proprio sfruttando l’odio popolare generato dalla violenta repressione dei Fratelli Musulmani, Ansar Al Islam si è saputa rafforzare in modo rilevante negli ultimi anni. Tra i suoi membri compaiono infatti sostenitori della Fratellanza riusciti a scampare al carcere o ad esecuzioni sommarie, ma anche centinaia di agenti e ufficiali delle forze di sicurezza che hanno perso il posto di lavoro per le loro affiliazioni politiche o religiose o per essersi rifiutati di arrestare manifestanti anti-governativi in una delle tante proteste di piazza che sono seguite al golpe dell’estate del 2013.
Cosa rischia Al Sisi
Secondo fonti dei servizi segreti egiziani, allo stato attuale Ansar Al Islam rappresenterebbe addirittura per il governo di Al Sisi una minaccia maggiore rispetto allo Stato Islamico. I motivi di tale profonda preoccupazione sono principalmente tre. Essendo direttamente collegata a ciò che resta della Fratellanza Musulmana, Ansar Al Islam può godere, come detto, di un forte consenso popolare. Inoltre, potendo contare sul supporto di ex ufficiali, soldati e agenti della polizia, dispone di una vera e propria forza militare e di uomini competenti e d’esperienza che sanno come attaccare all’improvviso o rispondere a un’offensiva delle forze regolari. Infine, Ansar Al Islam può far leva sulle tensioni che covano da tempo ai vertici dell’esercito e dei servizi segreti del Cairo, frizioni emerse a galla in modo evidente con l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni. «Sono più pericolosi dei miliziani del Sinai – ha dichiarato sempre alla Reuters un esponente dell’intelligence egiziana rimasto anonimo – Sono meno numerosi, ma hanno armi sofisticate e si concentrano solo su grandi operazioni». Quella del 20 ottobre scorso, oltre a causare diversi morti, ha costretto Al Sisi a effettuare una serie di cambi ai piani alti dell’esercito e del ministero degli Interni.
Dopo l’uccisione di Emad al-Din Abdel Hamid, le redini di Ansar Al Islam sono adesso nelle mani di Hisham al-Ashmawy, ex ufficiale delle forze speciali egiziane, uno degli uomini più ricercati del Paese. Ashmawy, al pari di Abdel Hamid, si è volatilizzato dopo la caduta di Mubarak optando per il Jihad e per la resistenza armata al governo di Al Sisi. Negli ultimi mesi ha arruolato almeno 30 tra ex capitani ed ex tenenti dell’esercito. Per scegliere gli uomini giusti si serve di una rete di ex funzionari dell’esercito ramificata in tutto l’Egitto che gli fornisce anche informazioni riservate su spostamenti e riposizionamenti delle unità militari.
La storia egiziana è sempre stata disseminata di punti di contatto tra le forze armate, l’Islam radicale e il Jihad. Nel 1981, fu un gruppo di ufficiali dell’esercito ad assassinare il presidente Anwar Sadat, “colpevole” di essersi avvicinato troppo a Israele. Mentre gli Stati Uniti sono convinti che dietro gli attacchi qaedisti alle ambasciate americane in Africa nel 1998 ci sia stato un ex colonnello dell’esercito egiziano, Seif al-Adel. Oggi in Egitto si sta assistendo a qualcosa del genere. Al Sisi può ritenersi ancora al sicuro. Ma farà bene a non sottovalutare i militari che hanno reagito alla repressione dei Fratelli Musulmani proclamando guerra al suo governo autoritario.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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