Nonostante quanto riportato nelle relazioni annuali e nel sito della compagnia, l’ENI nell’ultimo decennio ha avuto un atteggiamento alquanto tiepido nei confronti delle fonti non convenzionali di energia e verso i biocarburanti. La scelta strategica dell’Ente Nazionale Idrocarburi è sempre stata quella di concentrarsi sulla ricerca di giacimenti tradizionali, come quello di gas naturale scoperto in Mozambico, nell’Area 4 del prospetto esplorativo Agulha (a circa 80 chilometri dalla costa di Cabo Delgado), considerato uno dei maggiori successi della compagnia. Viceversa, la company – ora guidata dal nuovo amministratore delegato Claudio Descalzi – si è sempre mostrata riluttante a investire nei confronti sia della “Shale revolution” sia della produzione di biocarburanti.
L’ingresso nel mondo dello Shale gas è alquanto tardivo e si può far risalire al 2009, quando l’ENI acquista per 280 milioni di dollari dall’americana QuickSilver Resources Inc., produttore indipendente di gas, una partecipazione del 27,5% nell’esplorazione e sfruttamento dell’area Alliance, situata tra le città di Fort Worth e Dallas (Bacino di Barnett). Le iniziative si intensificano a partire dal 2010, con contratti di esplorazione in Tunisia, Algeria e Cina, attraverso una partecipazione con CNPC/PetroChina, mentre in Europa l’attivismo del cane a sei zampe si dirige verso la Polonia e il Bacino del Baltico (operazione che, però, si ritiene sarà abbandonata nell’anno in corso). Nel 2011, l’ENI acquisisce quindi il 50% della società ucraina Llc Westgasinvest (a margine di due accordi firmati con le compagnie Nadra Ukrayny e Cadogan Petroleum) per lo sfruttamento del bacino di Lviv (3.800 km quadrati).
Infine, nel 2013 l’ENI sigla un accordo paritario da 52 milioni di dollari con la Quicksilver Resources, per lo sfruttamento di eventuali giacimenti di Shale oil nella Leon Valley (Texas). L’ENI dichiara, altresì, di volersi impegnare nel miglioramento delle tecniche d’estrazione non convenzionali e nella ricerca sugli additivi chimici usati nelle miscele di frantumazione idraulica, al fine di ridurne l’impatto ambientale (contaminazione delle acque profonde e di superficie).
La scelta strategica dell’Ente Nazionale Idrocarburi è sempre stata quella di concentrarsi sulla ricerca di giacimenti tradizionali. La compagnia italiana si è sempre mostrata riluttante a investire nei confronti sia della “Shale revolution” sia della produzione di biocarburanti
Anche in questo campo, però, l’ENI sembra essere in affanno, superata per esempio da Cuadrilla Resources, società indipendente del Regno Unito che ha messo a punto da tempo un mix di tre composti (tra cui un lubrificante comunemente impiegato in cosmetica e un biocida utilizzato per purificare l’acqua) da utilizzare come additivi, e un sistema di recupero delle acque di frantumazione.
Per quanto riguarda la produzione di biocarburanti, la strategia ENI è ancor meno incisiva. L’Ente afferma che la sua attività di ricerca è concentrata sulla produzione di biocarburanti di terza generazione (alghe) e sulla sperimentazione “per l’utilizzo di una pianta infestante presente nel Delta del Niger per la produzione di bioelettricità”. Curiosamente, invece, il colosso energetico non è interessato alla produzione di biocarburanti di seconda generazione in Italia. O, almeno, non risultano rilevanti iniziative in questo ambito.
Tutto ciò appare alquanto singolare, visto che per frenare l’arrivo di biocarburanti di prima generazione in Europa, il 27 novembre l’UE ha deciso di imporre dazi antidumping sul biodiesel da olio di soia e da olio di palma prodotti in Argentina e Indonesia (rispettivamente del 24,6% e del 18,9%). L’Italia, quarto produttore europeo di biocarburanti (con 2,5 milioni di tonnellate annue), importa il 70% del biocarburante immesso al consumo già raffinato, e anche il 70% della materia prima agricola utilizzata nella raffinazione. Nel 2010 l’Italia, a fronte di 86.735 tonnellate di biomasse provenienti da seminativi nazionali, ha utilizzato 126.359 tonnellate da seminativi europei e 558.407 tonnellate di provenienza extraeuropea.
Il nostro Paese si presterebbe dunque a produzioni estensive di biocarburanti di seconda generazione, che recenti studi hanno dimostrato essere sostenibili in termini economici, energetici e ambientali. Se l’ENI decidesse di rivolgersi al mercato interno, per il rispetto dei vincoli d’immissione al consumo di carburanti da fonti rinnovabili (10% del totale dei consumi nei trasporti entro il 2020), si realizzerebbero le condizioni minime necessarie per lo sviluppo di una filiera corta dei biocarburanti e la nascita di un fiorente mercato nazionale.
Redazione
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