La Turchia di Erdogan e gli Stati Uniti di Donald Trump si sono accordati per la creazione di una “zona cuscinetto” nel nord della Siria e per un centro di comando congiunto necessario a gestirla. La safe-zone sarà “un corridoio umanitario per favorire il rientro dei profughi”, secondo l’ambasciata americana in Turchia, che ha precisato c’è un accordo anche per la “rapida implementazione di misure che vadano incontro alla preoccupazioni della Turchia sulla sicurezza”. Espressione che fa riferimento alle milizie curde presenti nell’area.
Erdogan e Putin si sono messi d’accordo. Tu fai un favore a me lasciandomi mano libera sui curdi e io mi porto via i jihadisti da Idlib e li uso contro le brigate curde Sdf-Ypg, inchiodando gli americani al dilemma siriano: proteggere gli alleati di Washington contro il «califfato» o cedere alle pretese territoriali di Ankara per eliminare la resistenza curda ritenuta vicina al Pkk.
Gli Usa stanno in mezzo ai contendenti con il loro contingente siriano, sotto pressione da mesi tra Manbij e Ain Issa. Erdogan oggi ha tre fronti aperti: la Nato e gli Usa per la fornitura dei missili russi S-400, la Siria e i curdi, l’Egeo per la partita strategica del gas, un great game di cui si parla meno ma che è questione incandescente per Grecia, Cipro, Israele e tutto il Mediterraneo orientale, compresi Libano, Palestina ed Egitto.
Tra l’altro ci coinvolge direttamente per la realizzazione del gasdotto East-Med Pipe, progetto firmato dall’Italia con Grecia e Israele nel 2017. Una pipeline che, sfruttando anche il giacimento egiziano di Zohr, piace molto agli americani per limitare la dipendenza europea dal gas russo e come carta diplomatica per dare consistenza al piano di «Nato araba» a guida israeliana.
Piace meno a Erdogan, per l’alleanza tra Grecia e Israele e che rivendica i diritti suoi e di Cipro turca. Pronto a sfidare le sanzioni della Ue che intende proteggere la «zona esclusiva» di sfruttamento delle risorse sottomarine greco-cipriote.
Il presidente turco ha deciso quindi di tornare alla carica contro i curdi siriani minacciando un’offensiva militare a est dell’Eufrate mentre ad Ankara gli americani trattano sulla richiesta dei turchi di una safe zone in Siria profonda 30 km e lunga 150: una sorta di provincia siriana nelle mani di Erdogan.
L’ennesima zona di sicurezza mediorientale che in questo caso serve a mangiare altro territorio ai curdi, già privati del cantone di Afrin. In poche parole la Turchia sta testando gli americani che si sono appoggiati ai curdi nelle battaglie contro l’Isis.
È il copione preferito da Russia, Iran e Siria di Assad che hanno raggiunto nei giorni scorsi un accordo con la Turchia per una tregua a Idlib, il vero nervo sensibile della vicenda siriana perché qui, nella provincia del nord confinante con la Turchia, ci sono ancora migliaia di jihadisti e le milizie fedeli ad Ankara.
Secondo questa intesa tra Russia e Turchia, stilata con la mediazione del Kazakhstan, Erdogan si è impegnato con Putin a rimuovere da Idlib i gruppi jihadisti e le sue milizie. Non solo, l’accordo di Nursultan (Astana) prevede un compromesso con Damasco per l’insediamento di un comitato costituzionale sul futuro della Siria.
I turchi sono soddisfatti dell’intesa con Mosca, al punto che sono appena ricominciati i viaggi tra i due Paesi senza necessità di un visto.
Con la tregua di Idlib la Turchia riapre, in funzione anti-curda, l’«autostrada del Jihad» inaugurata per abbattere il regime di Assad con l’afflusso di combattenti da ogni parte del mondo musulmano. Non solo Ankara sta ammassando migliaia di soldati al confine a ridosso di Kobane, la roccaforte curda protagonista della resistenza all’Isis.
Ma si prepara a usare le milizie jihadiste del nord-est siriano che compongono una parte del Free Syrian Army (35mila combattenti). Una di queste, la Sultan Murad Brigade, ha partecipato alla campagna turca «Ramoscello d’Ulivo» che ha portato all’occupazione di Afrin e l’uccisione di 4-500 civili.
Risorgono così i fantasmi di un recentissimo passato. L’«ambasciatore» del califfato, Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino, trattava direttamente con l’esercito e i servizi turchi embedded nelle milizie Isis. Lo ha raccontato con un’intervista in un carcere iracheno a Homeland Security Today, testata diretta da Michael Chertoff, ex segretario della sicurezza nazionale americana.
«La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 km. Avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e ottenere rifornimenti di ogni tipo, mentre Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: lo Stato islamico era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo».
E ora i jihadisti sconfitti a Raqqa o a Duma tornano ancora utili al presidente turco. Una ricomparsa dell’Isis in Siria sarebbe un grave colpo anche per Trump ma una nuova carta da giocare per Mosca, Assad e l’Iran. Ecco perché la guerra mondiale a pezzi della Siria non finisce mai.
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