Il processo di globalizzazione raggiunse l’apice del suo sviluppo con il trionfo dei princìpi statuiti a Bretton Woods, coerenti con la visione di Wilson fondata sul «rendere sicuro il mondo per la democrazia» contro la «rivoluzione irrazionale». Questo fenomeno incontrò i primi ostacoli con la crisi petrolifera degli anni Settanta, dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York e, in ultimo, allo scoppio della crisi dei crediti subprime nel 2008.
In Occidente, dal 1945 ad oggi, la democrazia politica ha dato prova di funzionare in modo relativamente ordinato, diversamente dal sistema finanziario, grazie al consolidamento di tre fattori: la distinzione dei poteri, il suffragio universale e il welfare state. L’articolazione odierna dei poteri pubblici, tuttavia, versa in una crisi profonda.
Per usare un gioco di parole, i policy makers hanno permesso la concentrazione di una ricchezza dissennata nelle mani di pochi (le élites private) a danno di molti (i cittadini). Per di più, le élites pubbliche hanno cessato di essere composte da «esseri eccezionali» e hanno fallito perché il modello di governance è diventato inefficace. Il loro carisma, in senso “magico”, non è più istitutivo di nulla, «cessa di compiere cose ritenute impossibili».
L’esperimento Macron e le incertezze dell’UE
In Francia, l’esperienza di Emmanuel Macron costituisce una risposta “ibrida” delle élites per governare i processi di ristrutturazione in materia di difesa, infrastrutture critiche, welfare state, intelligence, allocare in modo più efficiente le risorse scarse e rinsaldare il patto franco-tedesco alla guida dell’UE. Macron espose per la prima volta queste tesi pubblicamente in un discorso all’Università di Humboldt, che conteneva anche una nuova formulazione del concetto di sovranità.
En Marche! è un movimento dai lineamenti atlantici, filo-tedeschi, neo-coloniali, lib-lab; rappresenta un modello misto che similmente verrà replicato in altri Paesi ed è funzionale a non esacerbare il conflitto tra vincitori e vinti della globalizzazione.
Mentre la Russia si riafferma in chiave regionale e mediterranea, alla ricerca di quel “mare caldo” agognato sin dal XVI secolo per non restare landlocked, le élites europeiste provano a erigere un nuovo ordine continentale.
Il programma è indifferibile: difendere la moneta unica, assicurare l’equilibrio del continente per mezzo di tre/quattro blocchi geopolitici, mantenere i livelli essenziali di coesione politico-sociale con un welfare state sostenibile, affrontare l’estensione sul lungo periodo del terrorismo jihadista, governare il conflitto sociale violento negli ambiti urbani.
Questo nuovo ordine regionale, però, richiede che assurgano a Paesi di rango solo le comunità nazionali resilienti, in grado di auto-riformarsi rapidamente, a livello centrale e periferico. In presenza di dualismi quali città/campagna, centro/periferia, inclusione/esclusione – i veri incubatori dell’odio verso la globalizzazione – questo esperimento prova a proteggere il modello di Stato-nazione dai tentativi di secessione delle “piccole patrie”.
Possono essere tracciati due scenari possibili: o la fine del mercatismo scuoterà l’establishment finanziario con una nuova e imminente crisi finanziaria, riequilibrando il dualismo tra élites private ed élites pubbliche, che vede queste ultime regolarmente sopraffatte dalle prime; o assisteremo a trasformazioni di natura autocratica, con un deterioramento graduale del sistema delle garanzie e dei diritti individuali.
L’Europa è come una faglia che si muove e si aggiusta attraverso scosse simili a quelle causate dalla fine del patto di Varsavia. A quel tempo la frantumazione dell’impero sovietico provocò anche l’accelerazione della rifondazione europea a partire da Maastricht e poi l’allargamento a est dell’Unione, tutt’ora oggetto di opinioni contrastanti.
Il cambiamento in corso sarà molto disordinato, più violento rispetto a quello del 1989 e di natura sistemica. Il populismo, prima richiamato, rappresenta una reazione a fenomeni complessi che si sono stratificati durante gli ultimi quattro decenni: la mancata integrazione di un’intera generazione di immigrati, i flussi di esseri umani provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, il sovvertimento minskyano delle «regole del gioco» monetarie e finanziarie, la fine dei lavori taylorista e toyotista, il ridimensionamento del welfare state del XX secolo, le guerre per l’energia, il jihadismo, la penetrabilità delle reti informatiche, il processo di umanizzazione delle macchine.
L’assetto attuale delle istituzioni non può reggere l’urto degli impatti più violenti della globalizzazione, paradossalmente mentre potenze come la Cina riscoprono il primato della politica e si mettono alla testa di un nuovo processo di globalizzazione a guida ibrida.
Non esiste alcuna ipotesi di un’Europa a due velocità
La crisi dell’UE ha già definito blocchi regionali, che somigliano all’antica tetrarchia della Roma morente dopo Diocleziano: Germania e Francia in una dimensione, anche militare, neo-carolingia; un gruppo mediterraneo politicamente più debole; il gruppo di Visegrad e i baltici o un’area geopolitica probabilmente più complessa che colleghi Adriatico, Mar Baltico e Mar Nero.
Le élites franco-tedesche propugnano l’introduzione di un consiglio di sicurezza europeo formato da un primo nucleo di Paesi: un organo agile, che deliberi velocemente, aumenti l’efficienza dinamica e assicuri la capacità competitiva nella temperie della nuova globalizzazione.
I meccanismi attuali della partecipazione e della decisione politica, e con essi molte funzioni del potere pubblico che oggi chiamiamo budgeting, public expenditure, public-private partnerships, public sector innovation, subiranno profonde trasformazioni.
La classe dirigente del futuro sarà selezionata all’interno di partiti e movimenti a vocazione prevalentemente elettorale, ma soprattutto nelle università, nei centri di ricerca e nelle fondazioni, tra i professionisti e nei gruppi di pressione, dentro le banche, in centri di analisi finanziaria e nelle comunità religiose (anche per via della formazione di movimenti politici di ispirazione confessionale). Il nuovo potere pubblico non intaccherà i contenuti etico-giuridici della società aperta, ma col tempo darà impulso al ridimensionamento delle deliberazioni assembleari, a livello centrale e periferico.
Serve una ristrutturazione della governance pubblica in Europa
Si avverte la necessità di una nuova forma di sovranità riformatrice, all’insegna di due concetti chiave: la responsabilità individuale dei policy makers (at all levels), e la rapidità nelle decisioni di rilevanza globale, alla base di una ristrutturazione della governance pubblica in Europa.
Dalla Magna Charta Libertatum fino all’età contemporanea, le procedure politiche e le norme giuridiche si sono evolute congiuntamente, attraverso la sollevazione contro i tiranni ma ispirate da élites superiori.
L’idea di Stati senza la guida di élites, di infrastrutture digitali che sostituiscano le aristocrazie intellettuali con il web o attraverso forme di partecipazione “orizzontali”, dove la metà di ciò che si vede non esiste e l’altra metà non corrisponde a ciò che appare, è solo un’illusione ottica della società della disinformazione.
Accanto all’individuazione di nuove modalità per selezionare le élites pubbliche, va riequilibrato il dualismo diritti/doveri, a partire dal system of origin rules; e anche riscritte le regole della competizione economica, in un mercato globale dove le innovazioni tecniche siano poste realmente «al servizio dell’interesse generale», così come i risultati delle attività di intelligence economica.Ma in un mondo regolato dalla globalizzazione, condizionato dalla disinformazione, soggetto anche alla political warfare, in contesti dove pochi voti possono spostare l’esito di un referendum o di un’elezione, con ricadute e impatti anche su altre nazioni (si pensi alla Brexit), il suffragio universale non andrebbe riconsiderato forse a una luce diversa?
In altre parole, se per ricoprire alti uffici all’interno della società occorrerà possedere competenze peculiari, similmente, la capacità giuridica e la legittimazione anagrafica potrebbero non bastare al fine di esercitare il diritto di elettorato attivo.
L’interesse nazionale andrà difeso contro due minacce preminenti, che incombono sulla democrazia politica: le corporation che non operano nel rispetto della concorrenza per il mercato; le “forze dispotiche” (stati illiberali, criminalità organizzate e gruppi terroristici). Gli strumenti del sapere, le informazioni sensibili, le analisi di intelligence economica dovranno rimanere al servizio della democrazia politica, a tutela anche degli accordi commerciali tra gli Stati. Perché sono gli Stati che continueranno a vincere, se riformati nella cornice di una nuova Tranquillitas ordinis.
Rimodellare solo la geopolitica europea, purtuttavia, in blocchi regionali e in città-stato, non basterà a salvare il vecchio continente. Benché sia riuscita a debellare totalitarismi come il nazismo e il comunismo, la democrazia politica sta collassando con un’accelerazione mai vista prima. Rendendo attuali i propositi di Johann Gottfried Herder, si potrebbe dire che «…quando un progetto finalistico sta per fallire, chi possiede il discorso sa come cangiarne le forme».
La versione integrale dell’articolo si può leggere a questo link.
Marco Rota
Consulente strategico e analista delle Relazioni Internazionali
Il bivio tra democrazia e dittatura
19 Nov 2024
L’economista Giorgio Arfaras, in libreria dal 1° novembre con il saggio Filosofi e Tiranni, edito da Paesi Edizioni. Il…
Come fare impresa nel Golfo
16 Ott 2024
Come aprire una società in Arabia Saudita? Quali sono le leggi specifiche che regolano il business nel Paese del Golfo…
Perché l’Occidente deve cercare un confronto con Orban
29 Lug 2024
Il sostantivo «cremlinologo» aveva certo molti anni fa una sua funzione, di là dal definire l'etichetta di uno…