In materia di gestione dei flussi migratori e della società multi-etnica l’Italia deve fare da sé, nel senso che deve costruire un suo proprio modello. E deve farlo in tempi brevi. All’Europa manca il presupposto costituzionale di base per avere una politica coerente su questi fronti. Mancano, di fatto, una sovranità europea e una cultura dell’interesse europeo. Facciamo tre esempi.
Primo esempio. I Paesi europei hanno reagito in ordine sparso alla sfida del terrorismo: si è percorsa la via della cooperazione giudiziaria (v. Trattato di Prüm), rinviando sine die la costruzione di una comune piattaforma politica che consenta di individuare, di volta in volta, l’interesse leso e le forze da mettere in campo, sul fronte della repressione poliziesca e del contrasto militare.
Secondo esempio. Il nucleo dell’emergenza migratoria è costituita da migranti “economici” (quelli “umanitari”, secondo le regole europee, si aggirano intorno al 5%). Come ha spiegato il presidente francese Macron, con i migranti economici ciascuno se la vedere con i propri mezzi. Ciò ha costretto l’Italia e gli altri Paesi della sponda sud dell’Europa a dover gestire praticamente da soli i flussi provenienti dal Nord Africa, spesso rasentando i limiti della legalità (lo dimostra la recente vicenda libica). Ora si sta cercando di superare l’empasse con una revisione dei regolamenti europei, ma restiamo sempre al di sotto rispetto alla sfida che abbiamo davanti, visto che mancano una sovranità e una politica estera europee.
Terzo esempio. In Europa abbiamo varie politiche nazionali di integrazione del fenomeno islamico. I modelli principali sono due: da una parte il modello multiculturalista inglese, dall’altro il modello assimilazionista francese. Entrambi questi modelli si sono dimostrati fallimentari. Il primo ha creato delle enclave che si sono autogestite. Il secondo ha generato false integrazioni, che poi hanno avuto effetti terremotanti sull’ordine sociale come dimostrano le violenze nelle banlieue. Nel caso francese, l’integrazione giuridica, imposta dall’alto, non essendo stata accompagnata da un’integrazione sociale e culturale, ha provocato gravi conflitti sociali e favorito l’integralismo, tanto che il principio della “laicità”, un pilastro del diritto costituzionale frabcese, è stato contestato persino da giovani musulmane che hanno chiesto il diritto di difendere la loro dignità e la loro identità portando il velo.
Ora l’Italia ha un’opportunità. Nel nostro Paese non c’è ancora un Islam forte di seconda e terza generazione. La maggior parte dei musulmani che vivono in Italia si trovano qui per ragioni economiche, nutrono legittime aspirazioni di migliorare il loro status sociale, conservano un forte legame con le rispettive comunità nazionali e hanno un rapporto non conflittuale con il contesto socio-culturale italiano (come dimostrano il fatto che tifano per le nostre squadre di calcio e seguono con interesse le nostre elezioni). Non c’è il “comunitarismo” britannico né l’“assimilaizonismo” alla francese.
In questo contesto, quello che dovremmo fare è, in primo luogo, continuare con decisione sulla strada di un “politica italiana del Nord Africa”, legittimandoci come interlocutori internazionali di primo piano sulle vicende libiche. Contestualmente, dovremmo cercare la cooperazione dei Paesi da cui proviene gran parte dei musulmani presenti in Italia, a cominciare dal Marocco, e tracciare insieme a loro i binari sui quali andrà a viaggiare la politica italiana delle intese con L’Islam. In questo modo avremo maggiori certezze su questioni importanti, come ad esempio il profilo delle guide religiose che arriveranno in Italia ed eviteremo, nel contempo, di dare voce all’Islam popolare-antagonista, ultraminoritario e frastagliato, ma molto rumoroso e politicamente attivo. È una strada percorribile perché c’è una tendenza prevalente nell’Islam italiano a scegliere una certa stabilità sociale e istituzionalizzazione, mentre il fenomeno della radicalizzazione “universalista” (la valorizzazione dell’identità “islamica”, in chiave tendenzialmente polemica sia con il Paese in cui si risiede sia con le proprie stesse radici nazionali e familiari) è da noi ancora quasi sconosciuto, mentre nel Nord Europa sta assumendo dimensioni di massa.
Ormai in Europa il danno è fatto. L’Italia ha davanti a sé una finestra temporale che si chiuderà nel giro di 7-10 anni, il tempo sufficiente perché l’Islam di seconda generazione cominci ad avere anche nel nostro Paese numeri significativi. Bisogna agire prima che la finestra si chiuda, in nome dell’interesse nazionale e, indirettamente, di quello europeo.
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