Il presidente iraniano Hassan Rouhani, di solito molto prudente nei rapporti con la stampa, nel felicitarsi con le sue forze armate ha recentemente affermato: «Oggi possiamo dire che il male di Daesh è stato debellato e che non minaccia più la gente. Con la fine delle operazioni di liberazione di Bukamal, l’ultima roccaforte del Daesh, proclamo la fine di questo albero maledetto». L’ottimismo di chi crede nel tramonto del Califfato, però, appare ancora oggi immotivato e persino pericoloso.
Dell’ISIS e dei suoi orrori sono stati versati fiumi di inchiostro, ma in sospeso restano ancora molte domande. Che ne è stato, ad esempio, del Califfo Abu Bakr al Baghdadi? È sparito o si sta riorganizzando al pari di Al Qaeda? E ancora, dove sono finiti i mujaheddin europei rimasti intrappolati a Raqqa e prima ancora a Mosul?
Un’inchiesta della BBC ha rivelato il “patto scellerato” che ha consentito ai combattenti dell’ISIS di lasciare la città di Raqqa a bordo di comodi autobus nei giorni della sua caduta. Tra loro, c’erano molti europei. Nessuno sa dove siano stati portati, di fatto sono svaniti nel nulla. Secondo il Pentagono, circa il 30-40% di chi era partito per il Jihad è tornato a casa. Per quelli partiti dall’Europa, c’è chi è rientrato prima della chiusura della frontiera turca, sfruttando la rotta balcanica. In seguito, molti hanno chiuso la loro esperienza jihadista passando per i cosiddetti centri di de-radicalizzazione (specie in Francia e nei Paesi del Nord Europa) sui quali, peraltro, viste le enormi risorse investite e gli scarsissimi risultati ottenuti, pesano molti interrogativi. Alcuni, invece, si sono manifestati attraverso gli attentati commessi. Di tanti altri non sappiamo più alcunché.
Dal continente europeo, secondo l’Interpol, sono circa 6.500 i foreign fighters andati a combattere sotto le bandiere nere del Califfato. Il ritorno dei jihadisti nei loro paesi d’origine è un ulteriore motivo di preoccupazione per i servizi segreti dei maggiori paesi dell’Unione. Non solo in materia di sicurezza: ci sono anche gli enormi costi a carico degli stati per tentare di reinserire nella società soggetti che hanno visto, e talvolta fatto, cose indicibili. Così è per la Spagna della crisi catalana, per la Germania indebolita dal voto, per l’Inghilterra che negozia con fatica l’uscita dall’UE, e anche per l’Italia che si avvia a elezioni politiche con una legge elettorale che difficilmente garantirà stabilità.
Tutto ciò solleva alcuni interrogativi: è possibile negoziare l’uscita dall’Unione Europea come nel caso della “Brexit” e nello stesso tempo collaborare per la sicurezza comune? E, ancora, se la polizia catalana e quella di Madrid non si parlano, chi può dirsi garante della sicurezza dei cittadini spagnoli, e quindi europei? Se il governo italiano può espellere ogni tre giorni una persona per reati legati all’estremismo religioso islamico (solo da gennaio a novembre 2017 sono 97 gli espulsi, a fronte dei 229 allontanati dall’Italia dal gennaio 2015), lo stesso non possono fare altri partener europei. Ad esempio la Francia, che non dispone della stessa base legale. I francesi convivono così con la minaccia latente dei “revenants” (quelli che sono tornati): circa 300 sono quelli a piede libero, a fronte di 15mila soggetti considerati ad alto rischio. Qualche numero: 3,7 milioni i reati registrati nel 2016 dalla polizia francese, con un tasso di violenza aumentato del 4% in un solo anno.
Anche la Germania vive un momento delicatissimo: secondo i servizi segreti tedeschi, sono oltre 10mila gli islamisti nel paese, 1.600 dei quali sospettati di essere pronti all’azione. Numeri per difetto, perché sono migliaia i clandestini sul suolo tedesco. La Procura federale tedesca nel 2017 ha avviato oltre 900 indagini sul terrorismo: di queste, più di 800 riguardano casi legati agli islamisti e le cifre sulla criminalità parlano di un aumento negli ultimi dieci anni pari al 1.200%.
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Non se la passano meglio Belgio, Spagna, Olanda, Svezia e Danimarca. Senza contare il Regno Unito, che merita un discorso a parte. L’Inghilterra, più volte colpita da attacchi terroristici, attualmente monitora oltre 3.500 estremisti, dei quali fanno parte anche i 400 dei circa mille jihadisti ritornati in patria da Siria e Iraq. L’estremismo di matrice salafita qui si alimenta d’importanti finanziamenti provenienti da organizzazioni che fanno proselitismo, e attira giovani provenienti soprattutto da Pakistan, Bangladesh, India, Marocco, Tunisia, ma anche sbandati inglesi. Un fenomeno comprensibile se si considera che nella sola Birmingham, la seconda città più grande del paese, i musulmani ormai superano i cristiani con il 34% di fedeli contro il 33%. Simili percentuali si ritrovano in numerosi quartieri di Leicester, Bradford, Luton, Slough e nei quartieri di Londra come Newham, Redbridge e Tower Hamlets. Nonostante i ripetuti attacchi terroristici, l’Europa non riesce a dare risposte comuni in materia di anti-terrorismo, lasciando ai singoli stati la gestione del fenomeno.
Spettatore interessato delle divisioni europee è il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan che, attraverso il Ministero del Culto (Diyanet), ha lanciato una campagna di penetrazione islamica in Europa, raccogliendo rilevanti risultati in Germania, Italia e Francia grazie al movimento islamico Millî Görüş, all’interno del quale si nascondono anche elementi radicali. Tale propaganda si sostanzia di cospicui finanziamenti che servono per costruire moschee e centri islamici, stipendiare i predicatori, pagare viaggi, sovvenzionare convention, libri, siti internet e manifestazioni. Anche Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altri paesi del Golfo hanno puntato sull’Europa, facilitando la penetrazione della finanza islamica attraverso l’acquisizione di banche e aziende di ogni tipo, comprese quote del debito pubblico di numerosi paesi.
Tutto questo ci dice che è sempre più difficile districarsi tra sacro e profano, religione e fanatismo, finanziamenti leciti e illeciti. Con il rischio che l’Europa rimanga a lungo il palcoscenico privilegiato per nuovi atti terroristici compiuti da parte di chi vede avvicinarsi l’islamizzazione del Vecchio Continente.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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