Il governo giapponese sarebbe sul punto di sversare nell’Oceano Pacifico più di un milione di tonnellate di acque contaminate, già trattate, utilizzate per raffreddare gli impianti danneggiati nel disastro nucleare di Fukushima. Nessuna decisione definitiva è stata ancora presa da parte di Tokyo ma la questione potrebbe essere chiusa entro la fine di questo mese. Ad anticiparlo è l’agenzia nipponica Kyodo, che riferisce di una prossima riunione di governo. Da anni si discute, animatamente, del destino dell’acqua contaminata a seguito dell’incidente dovuto al terremoto di magnitudo 9 e al successivo tsunami di 9 anni fa. L’ipotesi dello sversamento in mare ha trovato una doppia opposizione, interna ed esterna, per le ripercussioni sull’ambiente e per la reputazione dei prodotti marini della regione. Sono contrari l’industria ittica e i pescatori, già duramente colpiti dagli effetti della tragedia, come i residenti. Al piano si è opposta anche Corea del Sud, i cui rapporti con l’arcipelago non sono certo stati idilliaci nell’ultimo anno per questioni legate al passato coloniale e al commercio.
Una sottocommissione di esperti istituita dal Ministero dell’Economia aveva presentato una proposta lo scorso febbraio indicando delle alternative realistiche: lo sversamento in mare, la dispersione nell’atmosfera o l’unione delle due ipotesi precedenti. Il panel di esperti aveva sostenuto che la prima delle due soluzioni sarebbe stata più facile da realizzare. Da aprile, il governo di Tokyo ha incontrato almeno sette volte i rappresentanti delle istituzioni locali e le associazioni dei pescatori e degli agricoltori, sottolineando l’esigenza di prendere una decisione nel più breve tempo possibile. Come scrive il giornale «Yomiuri», Tokyo sarebbe disponibile a creare un altro gruppo di lavoro, a confrontarsi di nuovo con la prefettura di Fukushima e a discutere il piano con le cooperative di pescatori. Ma lo sversamento dell’acqua radioattiva in mare dovrebbe avere prima l’approvazione dell’Autorità nazionale di regolamentazione del nucleare (Nra), attesa entro la prossima estate.
Secondo le stime del giornale «Asahi Shinbuni», i lavori di preparazione richiederebbero due anni di tempo, mentre non è ancora chiaro quanto altro tempo ci vorrebbe per portare a termine l’intero processo e immettere in mare 1,23 milioni di tonnellate di acque contaminate attualmente stipate in quasi mille cisterne. Non meno di 18 anni secondo alcuni calcoli, 30 per il quotidiano «Yomiuri». A detta della Tokyo Electric Power (Tepco), che gestisce l’impianto, a fronte di un aumento giornaliero di 170 tonnellate di liquido trattato, la capacità massima delle cisterne dovrebbe esaurirsi entro il 2022, ammesso anche che ne vengano costruite delle altre. Fino al mese scorso, i serbatoi erano 1.044. L’acqua necessaria a raffreddare gli impianti viene filtrata attraverso il sistema avanzato di trattamento dei liquidi (Alps), che, come ha ammesso la stessa Tepco nel 2018, non permette di eliminare tutti gli elementi radioattivi. Prima di essere sversata nell’oceano, l’acqua sarebbe trattata una seconda volta, verrebbe infatti diluita per consentire l’abbassamento dei livelli di radioattività secondo gli standard previsti. Questo metodo permette di estrarre tutti elementi radioattivi presenti nelle acque, tranne uno, il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno. Per gli scienziati, il trizio sarebbe nocivo per l’uomo solo in grandi quantità. Inoltre, il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Rafael Grossi, durante la visita a Fukushima dello scorso febbraio aveva dato il via libera al rilascio dell’acqua nell’Oceano Pacifico, definendolo accettabile in base agli standard internazionali dell’industria nucleare.
La questione investe anche i complicati rapporti con la Corea del Sud, che ha conservato negli anni il bando alle importazioni di prodotti ittici provenienti dalla regione di Fukushima, un bando imposto sulla scia del disastro nucleare, e in più occasioni ha chiesto a Tokyo di spiegare in che modo intende risolvere il problema. Tutto questo ha colpito duramente l’industria ittica che a fatica stava cercando di riprendersi e che ora teme un pesante danno di immagine. Un danno capace di avere effetti devastanti sulla domanda di prodotti in arrivo dall’area. Preoccupati anche gli ambientalisti, in primo luogo Greenpeace Japan che aveva già bocciato con forza la scelta annunciata dal governo giapponese di scaricare l’acqua contaminata radioattivamente: «Il mare non è una discarica. Il mare è la casa comune per tutte le persone e le creature e deve essere protetto». L’anno scorso proprio Greenpeace Japan ricordava che «Il 70% della radioattività rilasciata nell’incidente nucleare della Tepco a Fukushima, avvenuto l’11 marzo 2011, è stata rilasciata nell’Oceano Pacifico. Inoltre, l’acqua di raffreddamento e le acque sotterranee che hanno toccato il combustibile nucleare fuso sono diventate altamente contaminate». A detta dell’associazione ambientalista, il piano, se fosse realizzato, danneggerebbe ulteriormente un ecosistema già colpito duramente in questi anni da varie forme di inquinamento. Greenpeace Japan ha infatti chiesto che l’acqua contaminata venga conservata a lungo termine e che sia sviluppata la tecnologia per la separazione del trizio, il cui periodo di decadimento è di 12 anni.
Pubblicato su Il Mattino il 18 ottobre
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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