Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha affermato lunedì 18 novembre che gli Stati Uniti non riterranno più illegittimi gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, contraddicendo la posizione mantenuta fino ad oggi dal governo di Washington. Pompeo ha affermato che l’Amministrazione Trump considera gli insediamenti di civili israeliani in Cisgiordania «non discordanti con le leggi internazionali». Si tratta di un’inversione di marcia rispetto all’Amministrazione Obama, che nel dicembre del 2016 aveva autorizzato l’adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che dichiarava gli insediamenti una «flagrante violazione della legge internazionale senza alcuna validità». Nel 1978 era stato il presidente Carter a ritenerli illegittimi, ma gli Usa hanno continuato a considerarli tali nonstante il presidente Ronald Reagan avesse un’opinione diversa dal suo predecessore. L’annuncio di Pompeo è stato accolto con favore dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, che dopo due elezioni non è stato in grado di formare un govreno e ora, come scrive Politico, lotta per la sua sopravvivenza politica. Le affremazioni di Pompeo accontentano gli evangelici americani, che sono sentimentalmente legati a Israele, e sono di aiuto al premier Benjamin Netanyahu. La scorsa notte Israele ha lanciato un attacco aereo contro Damasco, causando 11 morti. Anche questo attacco potrebbe essere letto come una mossa politica, un tentativo del premier israeliano di restare in sella. La sicurezza è il brand di riconoscimento di Netanyahu, ed è con questo che ha vinto più di un’elezione. Oggi, nonostante l’appoggio di Pompeo e dell’Amministrazione Trump a Israele, la convinzione più diffusa tra gli israeliani è che il presidente non serva più alla loro sicurezza.
Piccola, sovraffollata, povera e regionalmente insignificante, con cadenza stagionale la striscia riesce sempre a conquistare visibilità. Tutti credono di averla in pugno, nessuno davvero controlla niente a Gaza: non Hamas e la Jihad Islamica, non Israele e i suoi servizi segreti; nemmeno l’Egitto che ogni volta tratta pazientemente una tregua dopo l’altra. L’Onu e le altre organizzazioni umanitarie non sanno dove mettere le mani in quel disastro; il Qatar regala milioni e scopre di essere suo malgrado ufficiale pagatore di una guerra santa insensata e presuntuosa.
Dal 2012 all’anno scorso l’emirato del Golfo aveva distribuito a Gaza più di un miliardo di dollari in aiuti. Hamas che crede di essere saldamente in controllo nella striscia ma non lo è, ne spende la gran parte per combattere la sua guerra contro Israele, che non vincerà mai. Il Wall Street Journal ha calcolato che con i soldi di ognuno di quei tunnel scavati per penetrare in Israele, Hamas potrebbe “costruire 86 case, sette moschee, sei scuole o sei piccoli ospedali”. Il WSJ non è un esempio di obiettività nel conflitto israelo-palestinese, ma questi calcoli sono molto realistici.
A meno che le cose non continuino fra una tregua egiziana e l’altra, il bilancio di quest’ultima crisi è di 32 palestinesi uccisi (compresi diversi bambini), un numero imprecisato di palestinesi e circa 110 israeliani feriti. Almeno 450 i razzi lanciati, il 90% dei quali intercettati dai missili-antimissile israeliani. In attesa della prossima, la causa di questa fiammata è stato Baha Abu al-Ata, comandante della Jihad Islamica. In Israele Esercito e Shin Bet, i servizi segreti interni, avevano preparato un piano per ucciderlo già due anni fa.
Perché farlo adesso? Il sospetto è che sia stato Bibi Netanyahu a ordinarlo. La sicurezza è il suo brand di riconoscimento, è con questo che ha vinto più di un’elezione. Una crisi con Gaza gli sarebbe molto utile, mentre rischia di essere estromesso dalla formazione del nuovo governo e da un momento all’altro i giudici dovrebbero chiamarlo alla sbarra per corruzione. Ma Ha’aretz, il giornale di sinistra che non lo ama, scrive che come l‘Esercito, Bibi era contrario all’operazione: la priorità è la frontiera Nord con Libano e Golan siriano, dove Hezbollah e soprattutto l’Iran hanno ordigni ben più sofisticati e mortali dei razzi di Gaza.
Sarebbe stato lo Shin Bet a insistere per l’eliminazione di Abu al-Ata, facendo probabilmente un favore ad Hamas e perfino alla stessa Jihad. Da tempo, infatti, il leader eliminato agiva in proprio, spesso contro il suo stesso partito. Più di una volta ha lanciato razzi contro Israele per far fallire tregue concordate da Hamas e Jihad. Non riceveva ordini dell’Iran – potenzialmente sono pronti a farlo in molti a Gaza – ma con le sue azioni voleva farsi notare dall’Iran, diventarne l’uomo d’azione più credibile.
Anche se di sponda, dunque, le fiamme di Gaza sono un fronte periferico della guerra non dichiarata e per ora a bassa intensità fra Israele e Iran. Una volta di più i palestinesi sono strumento di altri interessi nella regione. Nell’ordine delle priorità israeliane la questione palestinese è oggi l’ultima (posto sia una priorità): nelle due elezioni convocate in pochi mesi, nessun partito ne ha mai parlato. I problemi sono il fronte Nord, cioè l’Iran, e Donald Trump. Gli israeliani più ottimisti pensavano che il presidente combattesse per loro una guerra contro l’Iran; i più pragmatici che almeno rafforzasse il potere dissuasivo americano. Invece ha deluso tutti e oggi la convinzione che non serva più alla loro sicurezza, è universale fra gli israeliani.
Per fortuna che Vladimir c’è. Proprio mentre Trump ordinava il ritiro dalla Siria del Nord, abbandonando al loro destino gli alleati curdi, Putin veniva trionfalmente accolto in Arabia Saudita e negli Emirati, pilastri dello storico sistema di alleanze regionali americano.
Netanyahu e Putin sono lo stesso genere di leader sovranista, Israele è stato fondato da coloni russi (e polacchi), città intere parlano russo. Ma le cose non sono così semplici. “Alcuni in Israele sperano che Mosca li aiuterà a risolvere il loro principale problema di sicurezza”, scrive Eugene Rummer che ha lavorato nel National Intelligence Council americano. “Fino ad ora la Russia ha mostrato qualche cosa ma molto meno di quanto Israele desideri. Ci sono pochi segni che la Russia intenda rompere con l’Iran, i suoi partner e il suo alleato-chiave siriano”.
US Secretary of State Mike Pompeo (L) meets with Prime Minister Benjamin Netanyahu in Tel Aviv on April 29, 2018. (Matty Stern/US Embassy Tel Aviv/Flash90)
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