Trump Gerusalemme capitale Israele

La recente dichiarazione americana di voler riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele ha improvvisamente riacceso l’attenzione internazionale sulla questione palestinese e sul futuro di questa terra martoriata. Risuonata come una novità assoluta nel panorama politico mediorientale, in realtà la mossa di Donald Trump segue un iter cominciato nel lontano 1995 con il Jerusalem Act, un atto attraverso cui il Congresso americano decise già all’epoca di trasferire nella città santa la propria ambasciata. Soltanto che da allora la sua applicazione è stata rimandata di sei mesi in sei mesi grazie a sotterfugi burocratici, sino a che l’attuale presidente non vi ha posto rimedio.

A parte ciò, se non fosse stato per Trump, paradossalmente la discussione sul futuro della Palestina sarebbe rimasta laddove era scivolata con la conclusione della Guerra di Gaza del 2014, cioè in fondo alla rubrica delle priorità politiche dei paesi arabi. Da allora, infatti, né loro né la comunità europea ma neanche le organizzazioni non governative (ad eccezione di poche) hanno voluto o saputo rimettere la questione al centro dell’attenzione, preferendo lasciarla decantare in attesa di tempi migliori. Come se ce ne fosse bisogno. Come se le radici dell’odio che dividono palestinesi e israeliani non fossero già abbastanza profonde.

Tale vuoto mediatico intorno alla Palestina ha soltanto peggiorato una situazione già di per sé terribile, in particolare nella Striscia di Gaza dove, a differenza che in Cisgiordania, la crisi economica si fa sentire in tutta la sua drammaticità. Mancanza d’acqua, di energia elettrica e dei beni di prima necessità sono un tormento quotidiano per la popolazione di Gaza. Né stanno meglio i profughi palestinesi sparsi tra i campi del Libano, della Giordania e della Siria, dove guerre intestine tra fazioni islamiste sono all’ordine del giorno e dove l’irrequieta gioventù palestinese guarda con crescente interesse alle sirene dell’Islam radicale e dello Stato Islamico in particolare. Mentre continua a crescere anche l’influenza della Jihad Islamica, il cui braccio armato Al Quds (che guarda un po’ significa proprio “Gerusalemme”) è sempre più vicino all’Iran.

 

Il processo di pace

Ma a Gaza, per adesso, è ancora Hamas a fare il bello e il cattivo tempo. Senza il consenso dell’organizzazione paramilitare che dal 2006 torreggia sulla Striscia, non si muove niente in questo lembo di terra. Neanche i razzi che sono tornati a colpire Israele (16 in una settimana) da quando sono state indette le “giornate della rabbia” per protestare contro la scelta americana. Questa, però, è storia nota. Quel che è meno noto sono, invece, le trattative e le negoziazioni sottobanco che l’Arabia Saudita sta conducendo da mesi per risolvere una volta per tutte l’annosa questione.

Finora, oltre al pregevole tentativo di Oslo degli anni Novanta, i negoziati si erano incentrati sulla ricerca di formule diplomatiche che si sono poi disciolte di fronte al sostanziale rifiuto del mondo arabo-palestinese di riconoscere l’esistenza (e la forza militare) di Israele. La formula dei due Stati tracciata ai tempi di Bill Clinton all’insegna del “politicamente corretto”, si era arenata sul rifiuto di ammettere l’esistenza di Israele, che tuttavia è uno stato sovrano riconosciuto da tutti i paesi del mondo, compresi alcuni stati musulmani come Turchia, Egitto e Giordania (così come ha in Gerusalemme di fatto la propria capitale).

Con l’uscita molto “trumpiana” del presidente degli Stati Uniti, il processo di pace è invece ripreso secondo un nuovo vocabolario, che punta a superare i vecchi schemi per raggiungere qualche risultato concreto, complice la volontà dei sauditi che condividono con Trump il desiderio di un Medio Oriente che guardi più all’Occidente e meno all’Iran. Su questo, Israele non può che accondiscendere e, di fatti, la parola d’ordine è “negoziare su tutto, senza precondizioni”. Ma la seconda parte di questa frase, come ha chiarito più volte il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu – e come ribadito dall’ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs – indica che il governo d’Israele non accetterà come prerequisito per sedersi al tavolo delle trattative il ritorno ai confini precedenti al 1967 (quando cioè Israele conquistò ampi territori durante la Guerra dei Sei Giorni).

Secondo il governo israeliano, inoltre, accettare la costituzione di uno stato palestinese indipendente passa anche per il riconoscimento ufficiale dello Stato di Israele sia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese sia da parte degli islamisti di Hamas. Una richiesta di ancor più difficile soddisfazione, visto che costringerebbe ambedue le fazioni palestinesi di modificare i rispettivi statuti, dove oggi non si riconosce l’esistenza di Israele, definito semplicemente “entità sionista”. Ma tant’è.

 

Scenari

 Finora, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e il suo presidente Abu Mazen hanno nicchiato su tutto. Eppure, lo scorso novembre Abu Mazen si è recato in gran segreto a Riad, dove il principe ereditario Bin Salman lo ha reso edotto delle volontà saudite e americane: la soluzione dei due Stati resta in piedi, concessioni economiche e territoriali verranno fatte senz’altro in favore della Palestina, ma Gerusalemme sarà israeliana.

Il territorio di Gaza si potrà estendere in una parte del Sinai mentre gli insediamenti in Cisgiordania rimarranno tali. Si dovrà trovare una diversa capitale per la Palestina, anche fosse a tre chilometri da Gerusalemme, ma non dentro città santa. Questa la roadmap che mette spalle al muro Abu Mazen e il suo partito Al Fatah. Il cui potere negoziale, non meno che quello Hamas, appare molto scarso.

L’arma della guerra, infatti, non è più una possibilità da quando Israele nel 2014 con l’Operazione Protective Edge ha stroncato ogni velleità bellica di Gaza. Ma anche l’arma dell’Intifada è spuntata e non a caso i “giorni della collera” indetti dal premier dell’ANP Ismail Haniyeh sono stati meno violenti che in precedenti stagioni di protesta.

I mancati finanziamenti da parte della Fratellanza Musulmana, della Turchia e degli altri paesi sunniti, si sono fatti sentire e la debolezza politica ha fatto il resto. Dunque, alle forze più oltranziste della Palestina non resterebbe che affidarsi agli Hezbollah sciiti e al loro protettore iraniano, ma le distanze ideologiche e religiose inducono a ritenere questa mossa inopportuna e rischiosa al punto da mettere a rischio l’autorità stessa dei due partiti palestinesi. Ragion per cui, forse per la prima volta non vi sono margini di manovra tali da impedire il ripristino di un tavolo negoziale.

Anche Egitto e Giordania, con i quali Israele ha raggiunto ottimi accordi di pace, sono favorevoli a incoraggiare una soluzione e si sono resi disponibili alla mediazione. Come poter dar vita a due Stati, tuttavia, resta il nodo principale non solo dei politici, ma anche dei cartografi. Quanto a creare un solo Stato, non sembra esserci nessuno disposto a perseguire questa strada.

In definitiva, al di là delle parate diplomatiche e delle sparate politiche, c’è un fiume carsico che si muove sotto il deserto e che indica come il modificarsi dei confini scaturito dalla guerra in Siria e Iraq abbia dato il via a una nuova grande stagione del Medio Oriente, dove è ragionevole immaginare che tutto possa e debba cambiare. Chi sarà il vero protagonista di questo cambiamento, e se questo avverrà per via pacifica e non più militare, è perciò la grande sfida geopolitica dei prossimi anni.