La foto satellitare di Planet Labs è di poche settimane fa, mostra la portaerei americana Lincoln nello stretto di Hormuz. Al suo fianco uno sciame di motoscafi dei pasdaran iraniani. I moscerini e il pachiderma. Le solite evoluzioni di routine per mostrare bandiera, approccio consistente ripetuto in questi giorni in modo più evidente.
Fino a lunedì le Marine di Iran, Russia e Cina si addestreranno nel Golfo di Oman, lunghe le rotte del petrolio. Tiri, simulazioni di missioni anti-pirateria, azioni coordinate in quelle che i russi hanno definito – giustamente – esercitazioni senza precedenti. Da qui la cornice con foto di rito, uomini schierati, fanfare. Spazio meritato sui media ufficiali non tanto per i mezzi impiegati, quanto per il il momento.
Le manovre nel Golfo non arrivano a sorpresa. Sono state annunciate in settembre, in una fase piuttosto critica. C’erano stati i sabotaggi alle petroliere – sempre in quest’area -, i droni abbattuti dalle due parti, gli attacchi ai siti petroliferi sauditi e l’annuncio di Washington di un rafforzamento del dispositivo bellico nella regione. La Casa Bianca, con accuse più o meno dirette a Teheran di aver aggredito il rivale saudita, ha provato a creare una nuova coalizione per esercitare la «massima pressione» sui mullah.
I progetti di Trump, sempre un po’ ondivago, hanno portato ad una moltiplicazione di iniziative. Il Pentagono ha lanciato l’Operazione Sentinel per garantire la sicurezza da Hormuz a Bab el Mandeb. Voleva «imbarcare» una ventina di paesi, hanno risposto «solo» Qatar, Emirati, Gran Bretagna, Australia, Arabia, l’Albania e Israele (con l’intelligence).
Alcuni stati europei, guidati dalla Francia, hanno creato un loro comando ad Abu Dhabi, un distinguo per evitare di essere coinvolti in eventuali strike contro l’Iran. Un progetto al quale hanno aderito, sulla carta, danesi e olandesi, gli altri partner vedranno cosa fare. Giappone e India, invece, hanno annunciato missioni individuali.
Davanti a questo spiegamento i mullah sono riusciti a coinvolgere i rivali degli Stati Uniti. La Russia, che pure ha grandi rapporti economici con Riad, è ben felice di bagnarsi nelle acque calde del Golfo. Antica aspirazione che trova oggi nuovi sbocchi. La Cina è impegnata su un doppio livello: vuole entrare in questo gioco strategico e punta ad avere porti d’appoggio per i suoi traffici economici, l’ormai nota collana di perle. E dunque l’invio del cacciatorpediniere Xining potrebbe essere solo il primo passo. Dagli interessi specifici si passa a quello più ampio, dimostrando solidarietà ad un amico incalzato in un arco di crisi che va fino alla porta sud del Mar Rosso, Bab el Mandeb.
L’altro snodo, infatti, è rappresentato dallo Yemen, con le attività militari legate al conflitto nella penisola. Teheran è al fianco della guerriglia Houti contrapposta a sauditi-Emirati, ha schierato un nucleo scelto di guardiani, ha spesso lasciato una strana nave – la Saviz – in mezzo alla via d’acqua come punto d’osservazione. Riad, oltre a bombardare, esplora nuove iniziative, compreso un futuro dialogo con l’Iran. Dicono che non si fidi troppo di Trump. The Donald, peraltro, agita il bastone, ma tratta con gli ayatollah su questioni collaterali, come lo scambio di prigionieri. Sentieri minori che possono portare ad altro. Nel frattempo ognuno gonfia il petto e allena i muscoli.
Pubblicato sul Corriere della Sera del 29 dicembre 2019
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