Il quartiere Nazzal di Amman è sporco e fatiscente. La spazzatura, disseminata ovunque, sembra essere diventata una componente costante dei vicoli. Gli abitanti guardano incuriositi, ma con particolare discrezione. Ad attenderci, oltre ad l’acquerugiola, troviamo Kazim Ayesh, palestinese presidente della RETURN AND REFUGEES SOCIETY. Kazim ci guida all’interno di tre case dove riceviamo ospitalità da parte di alcune famiglie di origine siriana scappate dal terrore e dalla guerra.
Provengono da Homs, antica città a nord di Damasco. Sono state accolte qui in Giordania grazie al programma per i rifugiati dell’UNHCR e per molti di loro questa è la prima intervista. Da almeno otto anni la Siria è in preda a un catastrofico conflitto che ha trasformato non solo il territorio, oggi simile a un enorme girone infernale dantesco, ma anche il volto delle persone. E come sempre a pagarne il prezzo più alto sono i bambini. Dal 2011 in queste zone della capitale giordana, adibite ad accogliere circa 2000 famiglie fuggite dalla devastazione, si tenta di tornare alla normalità.
In Giordania, secondo l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR, Report – June, 2018), ci sono oltre 750 mila rifugiati, di cui solamente 50 mila con un permesso di lavoro regolare e attivo, su una popolazione che non raggiunge nemmeno i 10 milioni di abitanti. Oltre l’80% vive in aree urbane mentre il restante 20% nei campi. La maggior parte fugge dal conflitto siriano. A loro si aggiungono altri disperati venuti da Iraq, Yemen, Somalia e Sudan. Il Regno Hascemita, in collaborazione con l’Agenzia delle Nazioni Unite, con alcune ONG e grazie agli aiuti economici stanziati dalla comunità internazionale, ospita chi necessita di protezione, ma allo stesso tempo deve rapportarsi con problematiche interne molto gravi. Tali problemi derivano da livelli altissimi di disoccupazione, enorme debito pubblico e soprattutto da una corruzione dilagante, che coinvolge le istituzioni governative. Tutto ciò innesca un malcontento popolare che ciclicamente si tramuta in una serie di proteste fino ad ora mai degenerate in una vera rivoluzione. Un Paese, dunque, contraddistinto da una vivace multietnicità, afflitto però da molteplici incertezze, perno degli equilibri di Vicino e Medio Oriente. La Giordania rappresenta da sempre un rebus geopolitico, stabile solo grazie al volere e agli interessi strategici, economici e militari degli Stati Uniti e della vicina Arabia Saudita.
Il primo edificio che visitiamo è di fronte una discarica a cielo aperto emanante un odore acre. Bussiamo un paio di volte prima di ricevere risposta. Dallo spioncino della porta vediamo due occhi che ci scrutano con sospetto. Poco dopo, dall’uscio di casa esce una donna dallo sguardo stanco e dal viso invecchiato dalla guerra. Dimostra sicuramente più anni di quanti ne abbia in realtà. Al suo fianco una bimba, anche lei ci guarda e resta in silenzio. Non è la figlia della donna invecchiata precocemente, ma una sua nipotina rimasta orfana. La bambina, veniamo a sapere, ha perso entrambi i genitori nei campi di battaglia siriani. Mentre ci sfiliamo le scarpe per entrare nella loro umile casa, la piccola mette in ordine lo zaino, prima di avviarsi a scuola. Indossa un grembiule azzurro fiordaliso e, mentre si prepara, viene rimproverata più volte per via dei capelli scompigliati. Una volta addentrati nell’unica stanza, che funge sia da salotto che da camera da letto, ci sediamo su vecchi e ormai consumati materassi decorati. La padrona di casa ci offre da mangiare, ma Kazim ci scoraggia subito scuotendo la testa con discrezione: basta poco per renderci conto che le condizioni igieniche sono davvero scarse. Rifiutiamo gentilmente spiegando che abbiamo appena terminato di fare colazione. Iniziamo l’intervista ma, nonostante l’interprete, non riusciamo a comunicare come vorremmo. Dopo diversi tentativi, lasciamo la casa con tante domande e ben poche risposte. Non il limite della lingua, ma il terrore e la paura sembrano sovrastare la donna, molto riservata, che mostra i segni evidenti di un disturbo da stress post-traumatico. L’unica risposta certa che otteniamo da lei è la volontà di non fare più rientro in Siria.
Ci incamminiamo verso Al-Karak Street, distante appena pochi isolati, la pioggia inizia ad aumentare di intensità e ci costringe a velocizzare il passo. Vediamo arrivare in nostro soccorso un uomo in stivali di gomma con un ombrello. «Avete avuto difficoltà ad arrivare?», domanda con una certa apprensione. «Io sono Mahmoud Abdul Karim e vi stavo aspettando», ci spiega. Quando varchiamo la soglia della sua casa siamo ancora visivamente scossi. L’uomo, intuendo il nostro stato d’animo, decide così di smorzare la tensione: «Gradireste un po’ di Chai?»
Karim e la sua famiglia fanno parte della prima ondata di immigrati siriani giunti qui a Nazzal. L’uomo, 38enne, riferisce che nel corso degli anni ha aiutato molte persone provenienti dalla sua stessa città a raggiungere Amman. «La Giordania ci ha dato ospitalità, una vita dignitosa e soprattutto un futuro. Sappiamo che tutto ciò non è così scontato e di questo siamo grati».
Karim racconta che le sue giornate non seguono quasi mai una routine fissa: qualche lavoretto saltuario, alcune commissioni da sbrigare oppure i vicini di casa da aiutare nelle tante faccende domestiche. Abbiamo la netta percezione che qui, seppure con molte difficoltà, si agisca nel vero senso dell’inclusione sociale. Domandiamo ai 6 figli cosa vorrebbero fare da grandi e ci aspetteremmo da loro una lunga lista di professioni di prestigio. Ma le risposte invece lasciano l’amaro in bocca. Comprendiamo che sono persone che vivono senza molte aspettative e senza slanci emotivi, che conducono una vita semplice, evitando volontariamente grandi sbilanciamenti. Forse, pensiamo, di disavventure ed emozioni forti ne hanno già avute abbastanza. I bambini sembrano vivere secondo questa filosofia.
L’ultima casa che visitiamo si trova nel palazzo accanto. È sempre Karim ad accompagnarci e a presentarci al capo famiglia: Mohammad Zlad Mthahar. Sembra essere un tipo gioviale, lo intuiamo dalla calorosa accoglienza. Rivela, con orgoglio, di essere un falegname. Il suo volto si illumina mentre ci mostra alcuni lavori. La moglie , velata dalla testa ai piedi, rimane in disparte evitando di incrociare i nostri sguardi. Si alza soltanto per preparare la bevanda tradizionale, calda e aromatica. «Non abbiamo avuto il tempo di prendere i nostri oggetti personali. Siamo stati costretti ad andare via in fretta e furia!», urla e il suo tono diventa, all’improvviso, rabbioso. Tradisce così l’impressione allegra iniziale e svela un temperamento solo all’apparenza mite.
«La nostra casa è stata completamente distrutta!», spiega e ormai appare irrequieto. Capiamo che nessuno di loro prima si sarebbe immaginato tanta devastazione. Semplicemente, non erano preparati. «Hanno decapitato i miei nipoti!», conclude Mohammad, chinando il capo rovinosamente dopo un lungo e sofferente sospiro.
Domandiamo per mano di chi e prontamente il falegname replica: «Le milizie sciite e alawite che combattono per Assad!». La risposta ci lascia esterrefatti, un pugno allo stomaco. Accuse che macchiano di crimini gravissimi chi combatte in prima linea il gruppo Stato Islamico da diversi anni. Non sappiamo se credergli. Effettivamente, esistono dissapori molto profondi tra il mondo sunnita e quello sciita e più volte i combattenti addestrati in Iran e in Libano hanno dato dimostrazione di estrema efferatezza rendendosi responsabili di atti gravi e violenti. Ma forse è solo la paura a dettare le sue parole e insieme il timore di essere etichettato come un simpatizzante della guerriglia. Oppure, la propaganda del sedicente Stato Islamico deve aver fatto il proprio dovere. O, addirittura, quella ispirata dall’ideologismo dei Fratelli Musulmani, organizzazione che qui dimostra avere un peso non indifferente. O, infine, potrebbe essere stata l’influenza della Russia che vede gli interessi di Hezbollah non coincidere con i propri.
Lasciamo il sobborgo di Amman consapevoli di aver conosciuto un luogo dove ogni nucleo familiare vive a suo modo la sofferenza. Parlare significa dover andare di nuovo a scavare nel passato, facendo riemergere tutti gli orrori vissuti e le ingiustizie subite. Confidiamo nel fatto che affrontare questo passato sia servito loro per apprezzare la nuova condizione, ora fortunatamente più serena.
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