I rivolgimenti che hanno scosso Hong Kong nel 2019 stanno suscitando degli echi sempre più importanti. Dopo l’inasprimento delle misure legislative sulla sicurezza nazionale, ondate di arresti continuano a colpire i sostenitori della democrazia. Nel frattempo Pechino si prepara a riformare il sistema elettorale.

IL PESO DELLE PROTESTE ANTIGOVERNATIVE

Il 6 settembre scorso a Hong Kong si sarebbero dovute svolgere le elezioni politiche per il Consiglio legislativo. L’estate scorsa però Carrie Lam aveva annunciato il rinvio delle votazioni a settembre 2021. La scelta della Governatrice era stata motivata da un peggioramento della situazione pandemica nella città.
Notoriamente nel Consiglio legislativo si confrontano due opposti schieramenti: quello filo-governativo e quello pan-democratico. E ultimamente lo scontro tra le due parti politiche è diventato maggiormente intenso. Per comprendere infatti i recenti sviluppi dell’ex colonia britannica, è indispensabile tener conto degli eventi che si sono susseguiti a partire dall’estate del 2019. È il 9 giugno di quell’anno quando viene organizzata una manifestazione pacifica da parte dei democratici contro un disegno di legge che avrebbe consentito l’estradizione per determinati reati nella Cina continentale. Quell’emendamento, che per una parte della popolazione avrebbe compromesso l’indipendenza della magistratura, scatena una escalation di episodi violenti, intensificati dalla brutalità della polizia e dalle azioni vandaliche di una minoranza dei manifestanti. Alla fine la proposta di legge viene ritirata nell’autunno dello stesso anno, ma quelle agitazioni danno inevitabilmente nuovo slancio alle pulsioni democratiche cittadine. Tanto che a novembre del 2019, alle elezioni per il Consiglio distrettuale, si registra la vittoria schiacciante dello schieramento pan-democratico. Tale episodio ha sicuramente messo in stato di allarme Pechino, che il 30 giugno 2020 impone una stretta sulla società hongkonghese. Viene infatti introdotta la draconiana legge sulla sicurezza nazionale contro secessione, terrorismo, sovversione e collusione con forze straniere.

Fig. 1 – Alcuni dimostranti pro-democrazia protestano davanti al tribunale di West Kowloon durante le udienze contro i 47 attivisti, facendo il saluto delle tre dita. Il gesto è diventato il simbolo della lotta democratica in diversi Paesi asiatici

FERMO PER 47 ATTIVISTI

Proprio nell’ambito di applicazione della legge sulla sicurezza nazionale sono state arrestate nelle scorse settimane alcune persone che avevano organizzato e partecipato alle primarie democratiche dello scorso luglio. Nonostante il Governo di Hong Kong le avesse definite contrarie alla legge, più di 600mila persone si sono recate alle urne per scegliere i candidati democratici che avrebbero preso parte alle successive elezioni per il Consiglio legislativo. Tra coloro che sono stati fermati, un gruppo di 47 imputati è formalmente accusato di cospirazione per commettere eversione. E rischia, dunque, la condanna all’ergastolo. Secondo le Autorità questo evento era infatti parte di un piano accurato che avrebbe condotto al rovesciamento dell’attuale Governo. Negli ultimi giorni è stata confermata la detenzione degli attivisti poiché si ritiene che costoro potrebbero nuovamente compiere atti contro la sicurezza nazionale. Ma fuori dal tribunale di West Kowloon, dove si stanno svolgendo le udienze, non sono mancate folle di manifestanti che hanno protestato a sostegno degli accusati.

Fig. 2 – Il lungo applauso scoppiato presso la Grande Sala del Popolo durante la sessione di chiusura dell’ANP, in seguito all’approvazione delle modifiche del sistema elettorale di Hong Kong

SISTEMA ELETTORALE VERSO IL RINNOVAMENTO

Da diverso tempo il Governo di Hong Kong stava lanciando da più fronti segnali riguardo all’adozione di un nuovo approccio per la scelta dei candidati di tutti i tipi di cariche. In particolare l’annuncio di una riforma del sistema elettorale è stato formalizzato durante l’apertura dei lavori delle Due Sessioni. L’evento che, attraverso l’Assemblea Nazionale del Popolo (ANP) e la Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese (CPCPC), esprime l’orientamento politico annuale del Partito Comunista Cinese (PCC).
La decisione è stata poi accolta ufficialmente giovedì 11 marzo: i delegati dell’ANP con 2.895 voti favorevoli, zero voti contrari e una sola astensione hanno approvato il progetto di riforma. Pechino può così inaugurare una nuova era per Hong Kong, proseguendo verso l’innovazione della legislazione locale, avviata con la legge sulla sicurezza nazionale. In pratica tutto ciò mira alla difesa della sovranità nazionale e alla protezione del sistema socialista. Per questa ragione, il piano di riforma ruota attorno al principio dei “patrioti”, un presupposto teorico che intende rafforzare i sentimenti pro-Pechino e che, soprattutto, mira a estromettere tutti gli oppositori del partito dal gioco politico. Per certi versi tale principio è stato espresso di recente attraverso il giuramento di fedeltà allo Stato dei 180mila dipendenti pubblici. In altre parole, dopo questa ristrutturazione interna, solo i fedeli al partito – i “patrioti”, appunto – potranno ricoprire cariche rappresentative e questa valutazione spetterà a un Comitato elettorale, controllato ovviamente da Pechino. Il quale inoltre avrà il potere di eleggere direttamente una percentuale importante di membri del Consiglio legislativo.
L’establishment cinese continua a ribadire che tali interventi servono a consolidare il principio “Un Paese, due sistemi”. In realtà una riforma di questo tipo metterebbe effettivamente fine alle libertà garantite dalla Basic Law, in quanto le Autorità centrali imbriglierebbero definitivamente la società e le istituzioni di Hong Kong, facendo così tramontare l’eredità britannica.

Di Gaia Natarelli. Pubblicato su Il Caffè Geopolitico

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