Mercoledì primo luglio 2020 la polizia di Hong Kong ha eseguito i primi arresti legati alla nuova controversa legge sulla sicurezza nazionale, che è stata approvata il giorno prima dalla Cina senza essere discussa. La legge aumenta il potere controllo di Pechino sulla ex colonia britannica. Secondo la legge, la polizia locale può arrestare chiunque venga accusato di «attività terroristiche» e atti di «sedizione, sovversione e secessione», una formula che, a giudizio di molti osservatori, è un modo per reprimere le proteste a favore della democrazia. Le manifestazioni si ripetono da più du un anno ad Hong Kong. La polizia locale ha riferito che il primo arresto riguarda un uomo accusato di essere in possesso di una bandiera a favore dell’indipendenza di Hong Kong. All’inizio, non era stato neanche reso pubblico il testo della nuova legge. Mercoledì la polizia locale ha informato che il testo prevede che: «Mostrare bandiere, striscioni, scandire slogan o compiere atti con l’intento di secessione e sovversione potrebbe essere un reato in base alla “HKSAR National Security Law”. Si potrebbe venire arrestati e perseguiti legalmente». Chi viene arrestato, è stato poi chiarito, rischia il carcere a vita. Secondo chi la critica, la legge avrebbe segnato la fine del principio “un Paese, due sistemi”, con cui il territorio di Hong Kong è passato alla Cina nel 1997. Che la formula “un Paese, due sistemi” si fosse già rivelata un feticcio politico ne avevamo scritto nel numero di Babilon dedicato alla Cina: Silk and Rain:
A Hong Kong, i festeggiamenti del 1 luglio che celebrano il “ritorno” dell’ex colonia britannica alla Repubblica Popolare Cinese (RPC) forniscono ogni anno l’occasione alla popolazione per manifestare la propria insofferenza nei confronti della stretta del governo di Pechino sul sistema (poco) democratico e liberale. Nel 2019, la manifestazione è degenerata nell’assalto al Legislative Council (LegCo), l’organo legislativo della regione amministrativa speciale. L’irruzione, condannata dalla Cina come una «sfida impertinente» alla formula “un Paese, due sistemi” che ha governato le relazioni tra il centro e Hong Kong dal 1997, è stata solo l’apice di una escalation di proteste e violenze verbali iniziate il 12 giugno dell’anno scorso.
Guardando agli incidenti di luglio 2019, torna alla memoria l’occupazione nella primavera del 2014 dello Yuan, il parlamento monocamerale di Taiwan, da parte dei manifestanti sovranisti, intenti a bloccare il dibattitto allora in corso sulla ratifica di un accordo commerciale con la Cina. Dall’altra sponda dello stretto di Formosa, la presidente Tsai Ing-wen considera l’indipendenza de facto di Taiwan come «incontrovertibile» e ha respinto al mittente la proposta di riprendere i negoziati per riportare l’isola entro i confini del “territorio sacro” della RPC, e porre così fine a un «antagonismo politico» (per usare le parole dell’ex presidente Hu Jintao), che si protrae ormai da settant’anni. Nessun passo in avanti è stato fatto dal Consensus del 1992, il documento sibillino con il quale Pechino e Taipei si sono accordate sull’esistenza di “una sola Cina”, ma non su chi delle due sia legittimata a rappresentarla.
La contesa tra aspirazioni separatiste e il potere centrale rappresentato dal Partito Comunista Cinese appare al momento impari e non si limita alla mera contrapposizione politica, ma ne travalica i confini arrivando a coinvolgere altri aspetti. Hong Kong ha cominciato a percepirsi culturalmente diversa dalla Cina con l’emergere, alla metà degli anni Sessanta, della nuova generazione di giovani nati nel territorio sotto dominazione britannica. A Taiwan, invece, la narrazione che fa perno sulle differenze etniche, linguistiche e culturali dalla Cina continentale si è sviluppata più tardi, sul finire degli anni Ottanta. Nell’isola, considerata ancora oggi da Pechino una «provincia ribelle», coabitano due forme di nazionalismo tra loro antitetiche: una rappresentata dal Guomindang, che è a favore della riunificazione della grande nazione cinese nello spirito del Consensus; l’altra, ostentata dal Partito Democratico Progressista attualmente al potere, che invece intende valorizzare la cultura nativa taiwanese, a dispetto di un’identità cinese contaminata dal socialismo.
PROPAGANDA E RUOLO DEI MEDIA
Il Partito Comunista identifica la nazione cinese come un’unità politico-territoriale protesa a difendere gli interessi collettivi e individuali dei propri cittadini. Mentre fino agli anni Novanta i media ufficiali evocavano lo slogan del “secolo dell’umiliazione” dipingendo la Cina come vittima dell’imperialismo occidentale, attualmente la sceneggiatura prevede un intreccio composto dalla ripresa di una nuova centralità e dalla retorica sentimentale sul ringiovanimento della nazione. Essendo la libertà di espressione un diritto garantito dalla Basic Law, Pechino tollera in linea di principio un certo livello di dibattito pubblico tra forze pro-indipendenza e quelle pro-establishment. Tuttavia, per tenere testa ai media filo-democratici e pro-indipendenza, il governo centrale sostiene campagne di contro-propaganda attraverso canali tradizionali quali quotidiani e magazine, di proprietà di individui vicini al partito o cooptati all’interno del sistema politico locale. Vi è poi, ovviamente, l’utilizzo dei nuovi mezzi digitali. Dietro gli ultimi attacchi informatici su Telegram e il confezionamento di notizie artefatte a uso e consumo dell’opinione pubblica di Hong Kong e di Taiwan, sembrerebbe nascondersi lo United Front Work Department, un organo del PCC operante a livello sia nazionale che locale come canale di collegamento tra il Partito, le élite provinciali e municipali, e i gruppi di interesse. Il 23 giugno 2019, a Taipei, una folla di persone ha chiesto al governo di allontanare media e organizzazioni pro-Pechino dal dibattito pubblico sulla riunificazione.
UN FETICCIO POLITICO
Come ha osservato già l’anno scorso un editoriale del South China Morning Post, la recente ondata di proteste certificava il quasi fallimento della formula “un Paese, due sistemi”. Passi in avanti nel senso di garantire il suffragio universale alle elezioni dell’organo esecutivo cittadino non solo accontenterebbero le richieste degli abitanti di Hong Kong, ma aprirebbero le porte del negoziato sulla questione taiwanese. Nessun accordo o cooperazione a livello politico – né a Taipei né a Hong Kong – può tuttavia prescindere dall’assicurazione da parte di Pechino della difesa dei sistemi politici e giuridici. Finora, la salvaguardia della peculiarità è stata a Hong Kong più importante dell’attaccamento alla madrepatria, anche se la comunità finanziaria dell’isola teme che Pechino possa bloccare per ritorsione il processo di integrazione economica.
La formula “un Paese, due sistemi” si è rivelata un feticcio politico, che simboleggia la relazione di subalternità del sistema di governo locale alla struttura amministrativa e di governo eretta dal Partito Comunista, mancando realmente di salvaguardare l’eccezionalità politica dei territori tornati sotto la giurisdizione cinese alla fine degli anni Novanta. La subalternità della Basic Law alla Costituzione socialista comporta per Hong Kong il diventare una città cinese a tutti gli effetti. Similmente, tutto lascia presagire che lo stesso destino toccherebbe a Taiwan, se il Guomindang dovesse riprendere il controllo della presidenza.
Articolo tratto dalla rivista Babilon
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PHOTO: REUTERS
Raimondo Neironi
Dottorato di ricerca in Storia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Per Babilon e Il Caffè Geopolitico, si occupa di: politica, economia e ambiente; e due aree del mondo: Sud-est asiatico e Australia.
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