«Gli Houthi, ovvero Ansar Allah, chiedono di non essere discriminati, vogliono evitare la colonizzazione religiosa sunnita-saudita, avere una maggiore autonomia – non l’indipendenza – nel nord dello Yemen». Lo scriveva l’analista Marco Giaconi, scomparso qualche anno fa. Gli Houthi, spiegava Giaconi, sono Ansar, abitanti di Medina, il fronte interno ribelle in Yemen al confine con l’Arabia, nutriti e promossi dall’Iran, in primis. Per questi motivi la Casa Bianca li ha reinseriti nella black list come ha fatto anche per i Pasdaran iraniani.
La popolazione eterogenea controllata dal movimento Houthi rappresenta una sfida considerevole per il governo Houthi, che non sempre costituisce un’adeguata rappresentanza di tutte le sue parti per la redistribuzione delle risorse. Inoltre, data la moltitudine di gruppi controllati dal governo Houthi, ai comandanti locali viene concessa una relativa autonomia in questioni quali la riscossione delle tasse e il reclutamento dei combattenti. In questo contesto, vi sono notizie secondo cui di tanto in tanto scoppiano scontri tra diversi gruppi all’interno dei territori del governo Houthi, che si sono intensificati soprattutto dopo il crollo dell’alleanza tra gli Houthi e i lealisti di Ali Abdullah Saleh, e la morte di quest’ultimo. In questi casi, il governo Houthi è costretto ad agire per mantenere queste fragili alleanze attraverso gesti politici ed economici, e talvolta anche utilizzando misure repressive pesanti.
Gli Houthi conducono dal 2015 una lotta contro il principe regnante saudita Mohammed Bin Salman, a tutti gli effetti prostrato da un appoggio americano ridotto (rispetto agli anni di Trump). Ma ultimamente i loro attacchi hanno preso di mira il transito di navi container (cinesi e non) destinate a Israele, creando problemi logistici anche per quelle dirette in Europa le quali si trovano già, e sempre più saranno, in una situazione incerta al punto che la maggior compagnia energetica inglese, la British Petroleum, ha interrotto le operazioni nell’area prima di Natale. Gli altri container hanno dovuto fare il periplo dell’Africa evitando il passaggio dal Mar Rosso impiegando circa dieci giorni in più del preventivato.
Gli Houthi, secondo quanto riportato da IranNtl, sono pagati 100 dollari al mese dall’Iran mentre i militanti di Hezbollah, tecnicamente e storicamente più preparati, ricevono mensilità pari a 1000 dollari. I decisori politici a Tehran, anche se non si sono letti i gesuiti finemente machiavellici, ne applicano la lezione in modo grottesco: diceva Gracian che «si devono educare i propri figli come se fossero estranei, e gli estranei come fossero propri figli». Nulla di meglio per descrivere come l’Iran muova i fili sul Mar Rosso. Gli Houthi, ha detto il portavoce dell’US National Security Council John Kirby, ottengono «i mezzi, gli strumenti, le tecnologie e le armi dall’Iran per condurre le loro operazioni». In un comunicato riportato da Politico del 19 dicembre fonti del Pentagono hanno spiegato che il costo di costruzione di un drone yemenita è di 2.000 dollari, mentre per abbatterlo si spende tra 1 milione e 4,3 milioni.
L’avversario degli Houthi non è primariamente il traffico cinese diretto verso l’Europa, ma Israele. In un’intervista pubblicata il 19 gennaio dal giornale russo Izvestia il portavoce degli Houthi, Mohammed al-Bukahiti, ha assicurato che «le spedizioni di Cina e Russia non sono minacciate, siamo pronti a garantire il passaggio sicuro delle loro navi nel Mar Rosso perché la libera navigazione svolge un ruolo significativo per il nostro Paese». Dopo la supposta fine dell’economia-mondo e del vacuum indistinto di una globalizzazione spietatamente intesa dai teorici della fine della storia, ritorna come farsa la proposta della libertà dei mari da parte di chi li pirateggia.
Il comportamento di Israele non era stato improntato alla prudenza, recentemente. Negli ultimi anni Israele aveva fatto generosissime transazioni commerciali con i cinesi relativamente al porto di Haifa: questo se ha pagato nell’immediato, è rimbalzato in modo pesante a stretto giro. La guerra degli Houthi di questi giorni ne è la prova eloquente: vengono prese di mira navi container destinate ad Israele che generalmente partono dall’India.
Il 26 dicembre l’ambasciata israeliana in India è stata interessata da esplosioni nei suoi immediati paraggi. Israele rischia di diventare una via di mezzo tra lo Stato nazionalista di Fichte e uno Stato il cui equilibrio di sicurezza è messo costantemente in discussione. Il professor Pezzimenti ha scritto che «Fichte arriva a considerare la società civile come il risultato di un’evoluzione storica inarrestabile, ritenendola superiore allo Stato ridotto a puro strumento della società stessa». Se prevarranno in Israele le pulsioni di statualità fichtiana in un contesto di instabilità perenne, Israele diverrà uno Stato che va nutrito. Oltretutto deve fare i conti con i Paesi degli Accordi di Abramo (Emirati, Marocco) che durante questa crisi si sono mostrati molto distanti dalla sensibilità israeliana.
Per quanto riguarda i rischi critici di approvigionamento, nelle ultime settimane si è proposto di far pervenire via terra, da Bahrein ed Emirati Arabi e poi Arabia Saudita, i rifornimenti di generi alimentari e di base. Questo rimette in discussione gli Accordi di Abramo, che vedevano gli Emirati come puntello su cui, forse, si è fatto troppo affidamento. A ogni modo si tratterebbe, per dare un riferimento, di far viaggiare 300 tir al giorno sulla tratta Emirati-Israele.
Questa intricata rete di connessioni regionali spiega molto di chi si stia muovendo dai diversi Paesi del Medio Oriente, con flussi finanziari elevati, per mettere a repentaglio l’esistenza stessa dello Stato di Israele.
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