La piccola cittadina ungherese di Visegrad non ha mai avuto così tanta notorietà. Nemmeno nel 1991, quando fu scelta dopo il crollo dell’Unione Sovietica quale sede pattizia per rafforzare la cooperazione tra Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria rimaste orfane, come gli altri paesi-satellite, di un sistema politico-economico – indicato come il Patto di Varsavia – che era appena collassato davanti ai loro occhi. Poi arrivò il lungo e difficile cammino verso l’Unione Europea, che disegnò anche per loro un nuovo orizzonte socio-politico verso cui tendere, quello della construenda Europa.
Se il trattato di Visegrad siglato il 15 febbraio 1991 portò apparentemente a una cooperazione tra questi paesi soprattutto in ambito economico, a ciò non è mai corrisposta una voce unica nel negoziare con Bruxelles le tappe dell’ingresso nell’Unione. Ciò è apparso in tutta evidenza quando la Cecoslovacchia si divise in due nel 1993: allora, tanto Bratislava quanto Praga, pur rimanendo nella cornice di Visegrad, scelsero l’una un percorso verso la moneta unica e l’altra lo scetticismo (a oggi, tra i paesi Visegrad solo la Slovacchia ha adottato l’euro).
Lo scetticismo e la diffidenza nei confronti dell’istituzione centrale europea si sono poi consolidate negli anni e hanno contagiato l’intero blocco, sotto la leadership dell’Ungheria oggi incarnata dal suo straripante primo ministro, Viktor Orban, eletto dal popolo per ben quattro volte (l’ultima delle quali in maniera plebiscitaria) e ormai player insostituibile di una certa politica che gioca a prendere strumentalmente le distanze da Bruxelles.
Ma cosa vogliono precisamente Viktor Orban e i paesi di Visegrad? Essendo l’Unione Europea un cantiere ancora aperto, negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare di posizioni euroscettiche, sovraniste e a rigidità varie come quelle in tema di immigrazione, giustificate anzitutto dal mancato compimento di una Costituzione Europea, dalla carenza di un unico organo decisionale, e dall’assenza di una difesa comunitaria. Queste falle macroscopiche hanno portato a diverse correnti di pensiero politico. Alcune delle quali, come appunto quelle in auge intorno al blocco Visegrad, prediligono apertamente i muri trumpiani alle libertà di Schengen e alle quote di redistribuzione dei migranti preferiscono piegare la costituzione nazionale (in Ungheria il parlamento ha appena varato una stretta sulle richieste d’asilo e inserito nella carta il divieto di accogliere i migranti economici).
In ogni caso, il problema non è né l’autoritarismo o il cripto-fascismo di cui è accusato il governo di Budapest da parte delle élite continentali, che giustamente ne temono l’avanzata. Piuttosto, la questione attiene alla ricerca di un’identità propria che manca alle popolazioni d’Europa, ragion per cui il rifugio nel nazionalismo è solo la diretta e inevitabile conseguenza dell’insicurezza, anzi dell’incertezza.
Da qui il tentativo di costruirsi un’immagine forte, in cui il popolo s’identifichi e a cui corrisponda un’organizzazione economica sostenibile. Quest’Europa, nella cui cartina geografica sono inseriti anche i quattro di Visegrad, non sembra per adesso corrispondere alle loro aspettative. Ed ecco che, non certo da soli, tali paesi preferiscono a qualsiasi altro discorso il nazionalismo e scelgono come regola l’autoritarismo. Perché, in definitiva, è qualcosa che già conoscono e, ahinoi, appare più rassicurante dell’incerto processo democratico dell’Unione. E già le sirene della Russia, che del nazionalismo ha fatto una bandiera e una spinta per il percorso geopolitico che la sta portando a espandersi a ovest e nel Mediterraneo, iniziano a farsi sentire.
Se, tuttavia, Mosca non attrarrà mai davvero a sé il blocco di Visegrad, è pur vero che resta un’alternativa credibile per molti e soprattutto una leva politica da sbandierare al momento opportuno da parte di quanti – come ha fatto illo tempore la Turchia in relazione ai migranti, quando ha estorto 3 miliardi di euro in cambio della chiusura delle frontiere mediorientali – minacciano l’Europa quando è più debole per ottenere da essa concessioni crescenti, anziché integrarsi nelle logiche di Bruxelles.
In quest’ottica, l’isolamento di Visegrad non è davvero tale: piuttosto, dovremmo parlare dell’isolamento di Bruxelles che, non trovando una quadra su materie dirimenti come le sanzioni economiche e le migrazioni (un fenomeno ormai strutturale di questo secolo), cede in assenza di strategie migliori alle pur risibili opposizioni di un piccolo gruppo di paesi e ne subisce il contagio.
Il problema sta quasi tutto nella leadership. Ma è proprio in essa che si trovano gli anticorpi. Prova ne siano la Francia e l’Italia. Nel primo caso Marine Le Pen, la pasionaria francese che viene additata come emblema del populismo e del sovranismo – ma che non si definisce di destra! – nonostante la retorica e l’afflato fascistoide, ha perso clamorosamente la sua battaglia contro il più europeista dei presidenti francesi, Emmanuel Macron. Segno che non sempre puntare allo sfascio dell’Europa paga.
In altra maniera, lo stesso afflato ha attecchito invece in Italia, dove il ministro dell’Interno si è imposto quale vero uomo forte del governo uscito dalle elezioni: Matteo Salvini, che nutre stima per l’approccio oltranzista dei paesi di Visegrad e che condivide (a parole) molte delle proposte del premier ungherese Orban, fa un discorso molto simile. Ma, in definitiva, anche il suo è un gioco al rialzo, e peraltro il suo atteggiamento di governo duro e puro è per adesso sufficientemente diluito dal più prudente comportamento del Movimento 5 Stelle.
In definitiva, tutti coloro i quali oggi minacciano scissioni dall’Europa o leggi nazionali liberticide e/o in contrasto con i princìpi dell’Unione, stanno solo negoziando qualcosa con Bruxelles e applicano molto banalmente il metodo della “voce grossa” per ottenere dei risultati utili ai propri fini. Cogliendo inoltre l’opportunità di nascondere abilmente ai rispettivi elettorati, la pura verità: dall’Europa non si può uscire.
Né si può semplicemente come ha fatto il Regno Unito, perché nessun altro paese europeo all’infuori della monarchia britannica ha la forza, la solidità, la struttura mentale e le capacità per sostenere una scelta sì lecita, ma così radicale e pericolosa che si sta rivelando un “bad deal” per la stessa Inghilterra.
Dunque, tolta la “voce grossa” sulla questione dei migranti e allontanate le sirene della Russia, Bruxelles avrà poco da temere da parte di questi paesi, e tuttavia già adesso ha molto da imparare da loro. Perché, di certo, hanno rese manifeste le preoccupazioni di milioni di cittadini dell’Unione.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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