Joe Biden è stato dichiarato presidente eletto il 7 novembre, al momento della vittoria in Pennsylvania e con il superamento della soglia dei 270 grandi elettori, soglia che gli ha permesso di diventare matematicamente il nuovo presidente Usa. Ma il risultato finale e definitivo è arrivato soltanto venerdì 13, a seguito dell’assegnazione degli ultimi tre stati che ancora mancavano all’appello: Arizona, North Carolina e Georgia.
A Biden, entrambe con uno scarto di 0,3 punti percentuali, sono andate l’Arizona con i suoi 11 grandi elettori e la Georgia, con 16. Il North Carolina è stato invece attribuito a Trump con un margine di 1,3 punti, portando ai repubblicani 15 grandi elettori. Le elezioni si sono concluse quindi con un totale di 306 grandi elettori per il candidato democratico e 232 per quello repubblicano.
I numeri ai collegi elettorali sono curiosamente gli stessi di quattro anni fa quando Trump sconfisse Hillary Clinton, anche se con uno svantaggio di 3 milioni di voti. Il candidato democratico ha ottenuto in più anche la vittoria del voto popolare, con uno scarto di più di 5 milioni di voti; ha inoltre conquistato cinque Stati che nelle precedenti elezioni erano andati a Trump (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona e Georgia).
Nonostante questo, Trump continua a negare la realtà. Secondo il tycoon queste sarebbero state «le elezioni più disoneste della storia». Trump ha continuato per giorni a scrivere tweet in cui accusa la “sinistra radicale” ed i “Fake News Media” di aver rubato l’elezione, assicurando che a breve sarà fatta giustizia. «A partire da lunedì – 9 novembre – la nostra campagna comincerà a portare avanti in tribunale il caso per garantire che le leggi elettorali siano totalmente rispettate e il vincitore vero sia insediato», aveva affermato a caldo il presidente, ribadendo la sua convinzione che siano i media a voler mostrare Biden come vincitore per evitare che la realtà emerga.
Per la prima volta nell’era dell’informazione televisiva in America, le principali emittenti ad esclusione della Fox (e cioè MsNbc, Nbc, Abc, Cbs e Cnsbc) hanno deciso di interrompere la diretta che il presidente stava tenendo dalla Casa Bianca, quella del 6 novembre, per far presente agli spettatori che le affermazioni che stavano sentendo non erano sostenute da nessuna prova e che l’inquilino della Casa Bianca non potesse dichiarare la sua seconda vittoria andando contro i numeri reali. La reazione di Twitter al proliferare di accuse in arrivo dal profilo di Donald Trump è stata affiancare a ogni affermazione priva di prove un avviso che la indicava come controversa. Fino a che Trump rimarrà nello status di “individuo degno di nota”, che la piattaforma assicura ad ogni politico con più di 250.000 follower, non sarà possibile cancellare i suoi tweet ma soltanto, appunto, segnalarli.
A questo ha fatto seguito l’accusa di censura politica da parte dei repubblicani, non propriamente adeguata dato che, per ora, il social network si è solo limitato a etichettare le dichiarazioni come in attesa di verifica. Tanto è bastato, comunque, per insinuare ulteriore ostilità nei confronti dei media da parte degli elettori di Trump. Proprio per questo motivo stiamo assistendo, in questi giorni, ad uno spostamento dell’elettorato trumpiano in una specifica nuova piattaforma, Parler, che nella sua home page annuncia: «Parla liberamente ed esprimiti apertamente, senza paura di essere “deplatformato” per le tue opinioni». Nel nuovo social, fondato due anni fa da John Matze e subito popolatosi di idee prevalentemente conservatrici, si stanno ormai spostando molte personalità vicine al presidente.
Trump ha iniziato sin da subito a parlare di riconteggio, appellandosi alle ripetute irregolarità, affermazioni che però non si poggiano su alcuna prova, in riferimento a stati come il Wisconsin e il Michigan. I riconteggi, però, «possono solitamente spostare il risultato quando lo scarto è di centinaia, a volte migliaia di voti: non decine di migliaia», aveva già fatto notare il fondatore del sito FiveThirtyEight, Nate Silver.
Le regole per il questa procedura non sono le stesse in ogni stato. Ad esempio, nel Wisconsin e nel Michigan avviene in automatico e dovrebbe concludersi nei primi giorni di dicembre, mentre in Pennsylvania il riconteggio non è previsto se la differenza tra i candidati è inferiore allo 0,5%. Così anche in Georgia, uno stato chiave tradizionalmente repubblicano, che ha invece annunciato l’inizio del processo a mano una settimana fa. L’Arizona richiede un riconteggio obbligatorio se il distacco è inferiore all’1%.
Attualmente, gli stati in cui il GOP può ancora sperare di vincere rimangono Georgia e Wisconsin, dove sta pagando di tasca propria l’operazione, nonostante i risultati non potrebbero in nessun modo ribaltare la situazione. Biden continua a detenere il record di voti, pari ad 80 milioni, e di affluenza alle urne, con il 65% degli elettori.
Donald Trump ha intentato più di una decina di cause ai tribunali statali, in particolare in Pennsylvania, Arizona Michigan, Georgia, Nevada e Wisconsin, per porre fine al conteggio dei voti postali arrivati dopo il 3 novembre e per annullare quelli delle persone prive del diritto al voto. Per ora, nemmeno una è andata a buon fine.
La questione più discussa è stata quella relativa alla certificazione dei risultati della Pennsylvania, dove si sostiene che più di 650 mila schede siano state elaborate senza che gli osservatori repubblicani potessero assistere correttamente al processo in quanto troppo distanti dagli scrutinatori. Con cinque voti a favore e due contrari, la Corte suprema dello stato ha stabilito che i responsabili delle operazioni di voto a Filadelfia non hanno impropriamente bloccato i funzionari della campagna del presidente dal monitorare lo scrutinio. Rimane quindi in piedi solo una scarna accusa di favoreggiamento nei confronti degli elettori democratici a scapito di quelli di orientamento repubblicano.
Il termine ultimo per risolvere ogni controversia è fissato all’8 dicembre, perché il 14 è prevista la riunione del collegio elettorale degli Stati Uniti per l’elezione del prossimo presidente; la maggior parte degli stati ha in ogni caso fissato scadenze anticipate. La cerimonia di giuramento si svolgerà il 20 gennaio 2021.
Trump ha avviato anche una raffica di accuse alla Dominion Voting System, le cui apparecchiature sono state usate in più di 30 stati, sulla responsabilità di questa nell’alterazione dei risultati a causa di una presunta condivisione di software con la società Smartmatic, sua concorrente. Il fine di queste accuse è quello di trovare un collegamento con le elezioni venezuelane del 2017 e l’elezione di Hugo Chavez. La Cybersecurity & Infrastructure Security Agency, l’agenzia federale che sovrintende alla sicurezza elettorale, ha rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che tali affermazioni siano prive di fondamento e che queste siano state le elezioni più sicure della storia americana.
Nelle cause perse, lasciate cadere e rifiutate delle ultime due settimane non si può che vedere, ormai, «un ultimo disperato tentativo teso a promuovere il caos e la discordia», queste le parole di Kristen Clarke, presidente del Comitato degli avvocati per i diritti civili.
Dal punto di vista legale, durante i suoi anni come presidente Trump ha goduto dell’immunità per i reati federali, a partire dal Russiagate, l’inchiesta relativa all’influenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016. Non essendo attuabile un’incriminazione, il procuratore speciale Robert Mueller ha potuto soltanto decidere di non scagionare il presidente, rimandando il resto delle procedure a dopo la fine del mandato. Anche le indagini di Vance, procuratore distrettuale di Manhattan, e della procuratrice generale di New York, Letitia James, relative alle dichiarazioni dei redditi del presidente sono attualmente bloccate grazie al suo status.
A queste inchieste negli ultimi tempi se ne sono aggiunte altre di minori ed altrettante potrebbero comparire nella lista nel prossimo futuro. Non appena Biden si insedierà alla Casa Bianca sarà possibile proseguire, salvo che il presidente non decida di usare la grazia su se stesso. È un’ipotesi che nella pratica sembra essere realizzabile e che, limitatamente ai casi di ordine federale, permetterebbe a Trump di “auto-perdonarsi” aprendo ad una crisi istituzionale che potrebbe avere degli effetti sociali notevoli, considerando il livello di tensione presente nel paese.
Un’altra preoccupazione per Trump è il miliardo e mezzo di debiti che ha accumulato sui suoi 3,7 miliardi di patrimonio reale. Le scadenze di tutti i prestiti richiesti si stanno avvicinando e le possibili altre indagini che potrebbero essere avviate riguardo agli innumerevoli escamotages che ha sempre usato per evitare di pagare le tasse, iniziano a farsi concrete.
Il potere di condurre ad una pacifica transizione presidenziale è in mano all’agenzia GSA (General Services Administration), la cui amministratrice delegata Emily W. Murphy, nominata nel 2017 da Trump, sta rifiutando di riconoscere Biden come vincitore. L’ormai ex presidente rimane fermo nella decisione di non riconoscere personalmente la vittoria. È evidente, quindi, che ci siano delle altre ragioni per cui reiterare l’atteggiamento, identificabili nella necessità di mantenere alta l’insofferenza del suo elettorato nei confronti dei media e nella conseguente polarizzazione delle preferenze sulla persona specifica di Donald Trump, a prescindere dalle posizioni del resto del partito repubblicano, la cui parte moderata sta progressivamente perdendo terreno.
L’ipotesi di una ricandidatura di Trump per il 2024 è già stata ventilata e ha come conseguenza uno stallo generale all’interno del GOP e delle ipotesi di un’eventuale riorganizzazione interna. Non c’è quasi dubbio che, considerata l’influenza del personaggio nell’immaginario pubblico, nell’economia e nella fitta rete di associazioni del paese, se l’imprenditore decidesse di proseguire avrebbe sicuramente chi lo appoggerebbe.
Chiara Pretto
Nata in provincia di Vicenza nel 1994. Laureata al Dams di Bologna con una tesi sulla semiotica del potere, si interessa prevalentemente di Nord America e Medio Oriente. Ha lavorato per un po' in Israele.
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