Anni di militarizzazione della penisola non hanno portato all’eliminazione della minaccia terroristica. È in vista un cambio di strategia da parte di al-Sisi dopo la rielezione di marzo?

1. L’EMERGERE DEL TERRORISMO NELLA PENISOLA

Nel 2011 diversi gruppi jihadisti presenti nel Sinai si coalizzano per dar vita alla formazione Anṣār Bayt al-Maqdis (ABM). La caduta di Mubarak e l’assenza di un forte potere centrale offrono un’opportunità ideale per l’affermazione di un’organizzazione terroristica strutturata.
ABM riesce a inserirsi rapidamente nel vuoto di potere e a riscuotere un notevole consenso tra la popolazione locale. Il Governo del Cairo ha per decenni considerato il Sinai strategico in chiave energetica (per via dei gasdotti che lo attraversano), ma ha rimandato all’infinito l’attuazione di politiche di sviluppo della provincia. Non stupisce, dunque, che le comunità beduine che popolano la penisola, sentendosi trascurate dallo Stato, abbiano accolto con favore l’emergere del gruppo terroristico e abbiano deciso di confluirvi in gran numero.
Nel 2013 l’Egitto viene scosso nuovamente da un colpo di Stato. I militari rovesciano Morsi e danno inizio a una risoluta lotta al terrore destinata a durare fino ai giorni nostri. Se fino a quel momento l’obiettivo principale di ABM era il deterioramento delle relazioni tra Egitto e Israele (come dimostrano gli attacchi ai gasdotti tra i due Paesi), dal 2013 l’esercito e le Autorità centrali diventano il bersaglio principale dei terroristi: si susseguono attentati a postazioni di militari e di polizia e al quartier generale del capoluogo del Nord Sinai.
Non solo. L’autorità dello Stato egiziano viene minata anche per via indiretta, specialmente dopo che l’organizzazione terroristica nel 2014 presta giuramento al Califfo al-Baghdadi, inaugurando così l’alleanza con l’ISIS. È in questo contesto che vanno inquadrati i numerosi attentati contro la comunità copta e l’abbattimento dell’aereo russo nel 2016.

2. LA REAZIONE DI AL-SISI

Sin dal suo insediamento come Presidente nel 2014, al-Sisi adotta la linea della militarizzazione del Sinai per far fronte al propagarsi del terrorismo. Linea che si inserisce nel quadro strategico più ampio mirante alla messa in sicurezza totale del Paese. L’obiettivo del Presidente è infatti l’eliminazione di qualsiasi forma di terrorismo, sotto la cui bandiera si cela anche la lotta a ciò che è rimasto dell’Islam politico dopo il rovesciamento di Morsi.
La guerra a bassa intensità che va avanti da anni causa migliaia di morti. Tuttavia, la stabilizzazione della penisola, indicata tra le assolute priorità dallo stesso ex feldmaresciallo nella campagna elettorale per le consultazioni che lo hanno visto vincitore nel 2014, appare lontana. Al contrario, la linea del Governo rischia di produrre l’effetto opposto.
Le vere vittime degli scontri nel Sinai sono, ancora una volta, i civili, i quali trovano nel gruppo terrorista l’unica forma di difesa dai bombardamenti e dagli abusi dell’esercito. La strategia del Cairo si rivela miope e fallimentare perché, anziché indebolire i legami tra ABM (ridenominata Wilāyat Sīnā’ dopo l’affiliazione all’ISIS) e le comunità locali, crea le condizioni tali per cui questi rapporti vengono consolidati e sempre più civili decidono di unirsi ai jihadisti.
Ad aggravare la situazione contribuisce l’embargo imposto su alcuni centri urbani del Sinai col proposito di impedire l’afflusso di benzina e ostacolare in tal modo il traffico di armi. Anche in questa circostanza sono i residenti coloro che più di tutti patiscono l’isolamento che inasprisce la crisi umanitaria.
Nonostante l’evidente insuccesso della strategia adottata sin dal 2014, al-Sisi lancia una nuova e ancor più risoluta operazione militare – il Comprehensive Operation-Sinai 2018 – all’indomani dell’attentato che lo scorso novembre ha causato più di 300 vittime.

3. LA RIELEZIONE DI AL-SISI. NUOVO APPROCCIO DEL GOVERNO?

L’Operazione Sinai 2018 viene lanciata in un momento cruciale, cioè qualche mese prima delle elezioni di marzo 2018. Al-Sisi rischiava un calo di popolarità dovuto prevalentemente a due fattori: in primo luogo, l’attentato terroristico di novembre (il più grande della storia moderna dell’Egitto), il quale ha messo in evidenza l’esito negativo del piano di securizzazione del Paese; in secondo luogo, gli effetti delle misure di austerità (condizione necessaria per la concessione del prestito dal FMI) volte a risanare i conti pubblici, che hanno aumentato l’inflazione, ridotto il potere di acquisto delle classi meno abbienti e limitato i sussidi energetici alla popolazione.
Più che una campagna volta alla reale e definitiva soluzione della complessa situazione della penisola, il Comprehensive Operation-Sinai 2018 ha tutte le caratteristiche di una forte azione simbolica. In questo modo il Governo intende, in primis, dimostrare nell’immediato il deciso impegno contro i piani stragisti delle formazioni terroristiche e, in secundis, distrarre l’opinione pubblica insoddisfatta per le misure di austerità, spostando l’attenzione su una minaccia all’unità nazionale – appunto il terrorismo di matrice islamica. In seguito alla recente rielezione di al-Sisi sono emersi segnali che lasciano intravedere una intenzione di cambio di strategia per affrontare la questione del terrorismo nel Sinai. Esponenti del Governo hanno, infatti, avviato un dialogo con i rappresentanti delle tribù locali. Al centro dell’attenzione vi è la questione dell’embargo su carburante e materie prime, così come il piano per consentire agli studenti delle università del Sinai di riprendere i propri studi in seguito alla chiusura degli atenei dovuta alle operazioni militari.
Il Cairo è consapevole del fallimento della propria politica di sicurezza degli ultimi anni. Ed è anche consapevole del fatto che una completa stabilizzazione del Sinai non può essere raggiunta soltanto tramite misure repressive, ma deve necessariamente passare perl’inclusione della popolazione del luogo e per un piano di sviluppo della provincia che disincentivi la radicalizzazione delle comunità locali.

Francesco Castorina