Al Kennan Institute di Washington, osservatorio diplomatico sui fatti di Russia, si celebra il centenario di Dobrynin, il più stimato tra i vecchi nemici. È il funerale di un’epoca. Con una domanda a fare da sfondo: con Trump Washington è ancora credibile?
Erano l’equivalente americano dei proconsoli romani che amministravano le province dell’impero: da alleati potenti o da avversari, ovunque fossero assegnati, gli ambasciatori degli Stati Uniti erano ascoltati e le loro parole contavano. È per una celebrazione speciale che molti di loro, in pensione o ancora in servizio, arrivano al Kennan Institute di Washington: i cento anni dalla nascita di Anatoly Dobrynin, il più stimato dei loro vecchi nemici.
Ambasciatore dell’Unione Sovietica negli Stati Uniti dal 1962 all’86, servendo per 24 anni cinque segretari generali del Pcus e dialogando con sei presidenti americani, Dobrinyn è un simbolo della Guerra fredda. Durante la sua lunga permanenza a Washington ci fu la crisi dei missili a Cuba (fu lui a trattare la soluzione con Bob Kennedy), la guerra del Vietnam, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la trattativa e la firma dei più importanti accordi sul disarmo nucleare. Dobrynin era un promotore di distensione, e nelle fasi di gelo non interrompeva mai il contatto con gli americani. Era questa la regola di quel mondo bipolare, quando tutto era più chiaro, il nemico riconosciuto, a volte perfino stimato. E gli ambasciatori americani andavano a tutte le latitudini a rappresentare la potenza americana. Oggi invece devono affrontare l’orrore degli europei quando il presidente denigra NATO e UE, la disperazione dei curdi traditi, lo stupore degli ucraini, la sfiducia di israeliani e sauditi, la pericolosa supponenza degli iraniani, convinti che l’inattendibile America di Trump non risponderà alle loro provocazioni.
C’è poi il disorientamento globale per il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima e dal Trattato per il controllo dei missili a medio raggio che permette alla Russia di riarmarsi liberamente in Europa. In un sondaggio del Council of Foreign Relations di New York, condotto ad autunno in 14 paesi UE, la gran parte degli interrogati “non credono più che gli Stati Uniti possano continuare ad essere i garanti della loro sicurezza”. In un altro, fatto l’anno scorso dal Pew Research Center in 25 paesi del mondo, il 70% degli intervistati affermava di non aver fiducia nella leadership di Donald Trump.
Il giorno prima della commemorazione al Kennan, un istituto dedicato agli studi sull’Urss e ora sulla Russia e lo spazio post-sovietico, gli ambasciatori avevano visto su tutti i canali tv la testimonianza della loro collega Marie Yovanovitch. Trump l’aveva cacciata dall’Ucraina perché non aveva accettato di mettersi al servizio dei suoi interessi personali. La dignità della diplomatica davanti alla commissione parlamentare per l’impeachment, anche mentre Trump diffondeva un tweet d’insulti contro di lei, non mitigava il disorientamento degli ambasciatori. Dall’ordalia vissuta da Marie Yovanovitch avrebbero potuto passare anche loro. Può ancora capitare.
Più che una commemorazione di Anatoly Dobrynin, questo al Kennan Institute è il funerale di un’epoca: quella della Guerra fredda, la più limpida vittoria americana dopo la II Guerra mondiale. Un impero si regge sulla forza militare ed economica ma è l’attendibilità il vero fondamento sul quale si costruiscono solide alleanze. Che fine ha fatto la credibilità americana? Lyndon Johnson l’aveva persa in Vietnam, George W. Bush per l’invasione dell’Iraq. Questa volta è diverso: Johnson e Bush credevano erroneamente di rafforzare il potere americano. Donald Trump lo demolisce volutamente da dietro le linee. Peggio: dal quartier generale dell’impero, la Casa Bianca. Guardando la grande maggioranza delle sue decisioni in politica estera – NATO, UE, Ucraina, Medio Oriente – chi si avvantaggia sempre è la Russia di Vladimir Putin. Trump non si limita a indebolire l’America ma cede anche il passo al suo grande avversario dal quale è stato aiutato a vincere le elezioni del 2016: lo hanno provato tutte le agenzie d’Intelligence americane.
La Cina sarà il grande antagonista o partner del futuro. Oggi è la Russia di Vladimir Putin, e nei suoi comportamenti non sembra intenzionato a cercare la partnership con l’Occidente. Non c’è elezione nella quale non lasci tracce della sua volontà di disinformare, dividere, spaventare. Nel 1946, George F. Kennan, il diplomatico che per primo denunciò la minaccia dello stalinismo, aveva scritto che bisognava “capire e riconoscere per quella che è la natura del movimento col quale abbiamo a che fare”. Putin non è Stalin ma come il cinese Xi, il turco Erdogan, l’egiziano al-Sisi e molti altri, è un autocrate del XXI secolo, avversario del nostro modello liberal-democratico.
In teoria non sarebbe una cattiva notizia se la superpotenza americana riducesse la sua presenza e gli interessi sconfinati. Lo sarebbe anche in pratica se esistesse un sistema internazionale multipolare, che non c’è ed è estremamente difficile da costruire. E sarebbe positivo per un mondo più equilibrato se il vuoto lasciato dall’America non fosse occupato da potenze illiberali, brutali con oppositori e minoranze interne, e minacciose con i paesi confinanti. E’ anche per questo che nel sondaggio dell’anno scorso condotto da Pew, nonostante tutto la stessa maggioranza che non aveva fiducia in Trump continuava ad avere un’opinione favorevole degli Stati Uniti.
Pubblicato il 2/12 sul sito del Sole 24 Ore
PHOTO: Donald Trump, AFP
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