Il presidente boliviano uscente, Evo Morales, è stato rieletto per il quarto mandato. Morales ha vinto al primo turno le elezioni presidenziali di domenica 20 ottobre. L’opposizione scende in piazza a manifestare. L’Osa aveva suggerito che sarebbe stato più opportuno un secondo turno comunque
Evo Morales dice che in Bolivia si sta tentando un golpe e per questo proclama lo stato di emergenza, che peraltro nella Costituzione boliviana non esiste – il termine che vi si usa è “stato di eccezione”. E mentre il presidente grida al colpo di stato, l’opposizione fa altrettanto, proclama uno sciopero generale a oltranza e invita i cittadini a scendere in strada per protestare contro Morales: in una manifestazione è stata buttata a terra una statua che il presidente aveva dedicato al suo defunto alleato Chávez.
Così dopo il Cile, anche la Bolivia – confinante con lo stato andino – si scalda. Le proteste però sono rivolte contro un governo di colore politico opposto e ad accendere gli animi non è stato un aumento dei biglietti dei trasporti, ma il voto presidenziale di domenica.
Al centro delle proteste non c’è solo la scelta di Evo Morales di candidarsi lo stesso alla presidenza nonostante un referendum abbia bocciato la riforma costituzionale che glielo avrebbe consentito (il Tribunale Costituzionale Plurinazionale il 28 novembre 2017 aveva però sentenziato che il diritto all’elettorato passivo contenuto nella Convenzione Americana dei Diritti Umani prevaleva su Costituzione e voto degli elettori), ma anche il risultato delle elezioni.
I sondaggi infatti prevedevano sì una vittoria di Morales al primo turno ma una sua sconfitta al ballottaggio del 15 dicembre, con tutti i candidati uniti contro Morales.. Un ballottaggio che, secondo la legge elettorale vigente, dovrebbe tenersi se nessuno dei candidati raggiunge il 50 per cento dei voti, oppure supera il 40 per cento con però un distacco sul secondo maggiore di dieci punti.
In base al primo conteggio rapido dopo l’83 per cento delle sezioni scrutinate Morales aveva il 45,6 per cento contro il 38,16 dell’ex-presidente Carlo Mesa, l’8,87 del pastore presbiteriano di origine coreana Chi Hyun Chung e il 4,47 del candidato di destra Óscar Ortiz. Nonostante i risultati il presidente boliviano si diceva sicuro di una vittoria al primo turno grazie ai voti di esteri e aree rurali. Una sicurezza che ha preso peso quando, dopo 24 ore di sospensione, sono stati pubblicati i risultati del secondo conteggio, quello che teneva conto del 95,46 per cento delle sezioni scrutinate: Morales era salito al 46,86 contro il 36,76 di Mesa. Insomma, lo 0,1 in più di quel che gli serviva.
A quel punto l’opposizione è scesa in piazza, al coro di “non siamo Cuba / e neanche il Venezuela / questa è la Bolivia / e la Bolivia si rispetta”. Ci sono stati feriti, un ufficio elettorale è stato dato alle fiamme, e una statua di Chávez è andata in pezzi.
Non è bastata la rettifica dei dati però a fermare i manifestanti. Quelli ufficiali – del 95.63 per cento delle sezioni scrutinati – infatti davano sempre in testa Morales, ma con il 46,4 per cento e con Mesa al 37,07.
Il governo ha mandato a propria volta in piazza i suoi supporter, che in vari casi sono stati individuati chiaramente come dipendenti pubblici. Nel contempo ha consentito a Osa e Ue di controllare loro gli scrutini. L’Organizzazione degli Stati Americani mercoledì si è riunita a Washington e ha accettato, ma a condizione che il suo conteggio fosse vincolante. È a questo punto che Morales ha proclamato lo stato di emergenza-eccezione.
Col 98,09 dei voti scrutinati Morales era tornato vincitore al primo turno: 46,77 contro 36,75, lo 0,02 in più del necessario. Con il 98,35 per cento si era tornati al ballottaggio: 46,32 contro 37,07. Con il 98,42 il presidente ha ripreso a dirsi vincitore: 46,83 contro 36,7. Il consiglio dell’Osa, a questo punto è che sarebbe più opportuno un secondo turno comunque, anche se Morales alla fine la spunta con un vantaggio minimo. A riprova del diffuso nervosismo, il vicepresidente del Tribunale Elettorale Supremo Antonio José Iván Costas si è dimesso per protesta; la presidente María Eugenia Choque Quispe è scoppiata a piangere in pubblico.
Photo: La Presse
Maurizio Stefanini
Romano, classe 1961, maturità classica, laurea in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista dal 1988. Specialista in America Latina, Terzo Mondo, movimenti politici comparati, approfondimenti storici.
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