Ad agosto il Governo del premier indiano Narendra Modi aveva deciso di revocare l’articolo 370 della Costituzione, che prevedeva l’autonomia politica per il Kashmir. In base a questa decisione, lo scorso 31 ottobre lo Stato del Jammu e Kashmir è stato diviso in due nuove entità amministrative: Kashmir e Ladakh, totalmente sottoposte alle decisioni di New Delhi e dunque completamente assoggettate al Governo indiano. Uno di questi territori manterrà lo stesso nome e l’altro, al confine con la Cina, verrà denominato Ladakh. Le due entità amministrative diventano Territori dell’Unione e dunque, al contrario degli altri Stati, che hanno dei propri governi, saranno governati direttamente dal governo centrale di Nuova Delhi.
Risolveremo il problema del Kashmir & Jammu in quattro mesi”, prometteva qualche giorno fa Narendra Modi, durante un comizio elettorale in Maharashtra. Attratta dal magnetico decisionismo del primo ministro, la grande maggioranza degli indiani di religione hindu (che sono l’80% della popolazione del paese) è convinta che il miracolo politico sarà compiuto.
Basteranno 120 giorni, garantisce Modi. Nonostante tutti i 14 premier che lo hanno preceduto, da Jawaharlal Nehru a Manmohan Singh, abbiano speso tempo e consenso popolare senza risolvere il problema; nonostante da oltre settant’anni il Kashmir a maggioranza musulmana sia una spina nel fianco della stabilità indiana e regionale; nonostante India e Pakistan abbiano combattuto tre guerre, più sei scontri minori fra “schermaglie”, “attriti” e “conflitti limitati”, per il possesso della regione himalayana divisa da una “Linea di controllo” che a fatica i due paesi riconoscono.
Il 5 agosto il governo indiano aveva revocato l’articolo 370 della Costituzione che concede allo stato del Kashmir & Jammu una condizione speciale. Come primo passo, Delhi aveva mandato migliaia di poliziotti e di soldati per impedire manifestazioni e rivolte. Ci sono stati migliaia di arresti, sono stati chiusi i mercati, il business è rimasto paralizzato. Per più di due mesi la regione era stata completamente isolata: niente comunicazioni telefoniche, internet, trasporti. Solo dopo 71 giorni i cellulari hanno ricominciato a suonare ma il servizio di sms restava bloccato. Il ritorno alla normalità è stato avviato ma così anche il terrorismo: lo stesso giorno in cui i telefoni avevano ricominciato a funzionare un importatore e un operaio hindu sono stati assassinati.
Eliminando l’articolo costituzionale e riducendo pesantemente l’autonomia del Kashmir da stato a territorio dell’Unione indiana, Narendra Modi conta, fra altre cose, di rilanciare una delle regioni economicamente più depresse del paese. “Il nostro governo ha preso una decisione storica”, commentava Anurag Thakur, ministro degli affari economici. “Ora in J&K vedranno uno sviluppo massiccio”. Fino ad ora quasi in 50% del Prodotto Interno Lordo del Kashmir era garantito dalle imprese di stato; più del 90% delle risorse economiche del governo autonomo sono denaro del governo centrale di Delhi. L’iniziativa degli investimenti privati è molto limitata anche perché l’autonomia della regione impediva a chi non era del Kashmir di possedere terreni, imprese e immobili. Inefficienza e corruzione erano blandamente combattute dalle autorità locali.
Gli attentati dimostrano che non sarà facile trovare investitori indiani e internazionali disposti a investire e produrre nella zona più volatile del Subcontinente. Non sarà facile nemmeno uscire dai danni economici che lo stato d’emergenza ha comunque provocato. Secondo la BBC, all’inizio di ottobre “la Camera di commercio e industria del Kashmir stima che la chiusura sia già costata alla regione più di 1,4 miliardi di dollari e migliaia di posti di lavoro”. Prima del 5 di agosto erano state create più di un centinaio di startup giovanili, ora rimaste senza investimenti.
“Quando il proposito del regime è la dimostrazione di potere, il fervore nazionale e il controllo sociale, l’azione ‘audace’ sarà all’ordine del giorno”, scrive sul giornale “The Indian Express” Pratap Bhanu Mehta, uno degli intellettuali più importanti del paese. Ma il consenso popolare sull’abolizione dell’articolo 370 è vastissimo, lo sostengono anche molti dirigenti di quel che resta dell’opposizione del Congress la cui posizione ufficiale era invece contraria. Alle ultime elezioni in Maharashtra e Hariana, due stati importantissimi, il Bjp di Narendra Modi ha stravinto ignorando l’economia che non funziona, puntando invece sul Kashmir e sulle altre decisioni “audaci” temute da Pratap Mehta.
Ma perché Narendra Modi ha preso l’iniziativa del Kashmir alla fine dei primi cento giorni dalla folgorante vittoria elettorale nazionale di fine maggio? Il dubbio che serva per far dimenticare la crescente stagnazione economica è più che giustificato. “Non c’è mai un momento giusto per farlo”, spiega Sushant Sareen, esperto della questione Kashmir per l’Observer Research Foundation, ORF, uno dei principali think tank indiani. Ma la ragione ideologica dell’eliminazione dell’articolo 370, “è molto chiara”: il Bjp ha sempre sostenuto di volerlo fare, è parte fondamentale del primato hindu che il partito vuole imporre al paese.
Sushant Sareen aggiunge anche la questione sicurezza: “La preoccupazione è genuina, la situazione internazionale si sta deteriorando”. Il ritiro americano già avvenuto dalla Siria, quello continuamente promesso dall’Afghanistan aprono scenari nuovi e pericolosi. Molti foreign fighters kashmiri potrebbero tornare dal Medio Oriente; molti altri stanno combattendo accanto ai talebani.
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