In Iran esistono più movimenti di opposizione. Tra questi ci sono quelli legati al Movimento Verde, Jundallah, un gruppo di ribelli della provincia del Baluchistan. Ci sono i curdi, il Partito Comunista Operaio, ma anche gruppi azeri, monarchici, alcuni di ispirazione laica, altri di matrice islamista, in molti casi anche sottogruppi minoritari tra loro scollegati con militanti e combattenti di provenienza eterogenea. Gran parte degli analisti concorda sul fatto che il più importante movimento di opposizione sia il Mujahedin-e Khalq (Mek), ossia l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (Pmoi, People’s Mojahedin Organization of Iran).
Il primo luglio scorso ad Auvers-sur-Oise, alle porte di Parigi, si è aperto il vertice mondiale per un Iran libero, il «Free Iran World Summit 2023. Onward to a Democratic Republic». Al vertice erano presenti Mike Pence, John Bolton, Wesley Clark, Joe Lieberman, Liam Fox, James Jones, John Bercow, Stephen Harper, e molti altri rappresentanti della politica e delle istituzioni a livello globale, espressione di idee sia conservatrici che progressiste.
L’Iran è rimasto disorientato dalla reazione dei mercati europei, quando prevedeva un sensibile aumento delle richieste di forniture di idrocarburi dopo l’aggressione russa all’Ucraina. Questo non è avvenuto e il regime ha continuato a utilizzare la soglia di purezza dell’uranio come leva per ogni richiesta al rialzo, soprattutto nelle trattative con Parigi e Washington. Tutto questo mentre l’interoperabilità dual-use tra Iran, Russia, Cina e Cuba rappresenta una minaccia globale, ancora più pericolosa se si osserva la «redistribuzione» del potere che sta avvenendo a Mosca, tra siloviki, servizi segreti, esercito e potentati energetici. Un quadro allarmante che sta spingendo gran parte dei parlamentari americani, sia democratici che repubblicani, a ricompattarsi sugli obiettivi di politica estera: posizionamenti ben visibili al summit di Auvers-sur-Oise, esemplificati da un discorso bipartisan e di grande levatura politica di Joe Lieberman (che pochi ricordano per aver lavorato alla creazione del Department of Homeland Security).
Maryam Rajavi, la presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Ncri, National Council of Resistance of Iran), ossia la maggior forza di opposizione al regime dei mullah, è stata la protagonista di questo evento mondiale. Discendente della dinastia dei Qajar che regnò in Iran sino al 1925, Rajavi ha definito «inevitabile» il rovesciamento del regime iraniano, e ha sottolineato i rischi collegati alla disinformazione, ai sabotaggi, agli attentati, puntando il riflettore sulla storia della lotta delle donne iraniane contro la misoginia del regime e i sacrifici compiuti come Pmoi/Mek.
«Nessun regime oppressivo può durare per sempre», ha detto Mike Pence, che ha parlato in presenza all’incontro dopo che lo scorso anno aveva fatto visita a Rajavi in Albania, presso la sede centrale dell’organizzazione. Se quello di Joe Lieberman è stato un intervento rivolto principalmente alla classe politica americana, quello di John Bolton è stato più lapidario. Bolton, per sua stessa ammissione, è il nemico numero 1 sulla lista del regime teocratico iraniano. Al summit di Auvers-sur-Oise l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale ha parlato senza mezzi termini delle operazioni di guerra ibrida condotte da Teheran, ad esempio «i tentativi di omicidio di membri attuali e precedenti del governo americano […] i dettagli di quello organizzato contro di me sono sul sito del governo e i tentativi si sono infittiti dal 2015». Bolton ha aggiunto che sarebbe un fallimento aspettarsi qualcosa da una trattativa: «Sbaglierebbe tutto l’Occidente». E col suo proverbiale dono della sintesi, riferendosi all’Iran, ha detto che «Tra un anno saremo lì».
Sull’Iran forse i pensieri del presidente Biden (e della Cia), quelli di John Bolton e dei parlamentari del Congresso si stanno allineando più di quanto si legga nei memorandum ufficiali?
Il potente supporto bipartisan angloamericano visto al summit parigino indica che l’influenza politica del Mek di Maryam Rajavi sta aumentando a vista d’occhio, ma lascia prevedere anche un’escalation della risposta terroristica del regime di Teheran. Il Senato americano, con la sua condotta bipartisan, rafforza il movimento di Rajavi e si collega alle pesanti preoccupazioni espresse più volte da Gerusalemme. I micro-accordi del governo degli Stati Uniti, come quello sancito dopo l’incontro in Oman, sono sgraditi sia a Israele che al Congresso americano, e quest’ultimo ormai può opporsi alla firma presidenziale di un nuovo accordo ufficiale con l’Iran.
Mike Pompeo, che è intervenuto al summit parigino collegandosi in videocall, come l’ex primo ministro britannico Liz Truss, ha messo in guardia dal firmare qualsiasi nuovo accordo con Teheran circa il programma nucleare, poiché si tratterebbe di «una calamità per il popolo iraniano e per il mondo». I colloqui di Biden con Teheran stanno incontrando un crescente scetticismo bipartisan a Capitol Hill. Tra l’altro, il senatore Lindsey Graham, affiancato dai colleghi Bob Menendez e Richard Blumenthal, lavora a una legge che richiederebbe al direttore della National Intelligence di notificare al Congresso entro 48 ore se l’Iran producesse o possedesse uranio con una soglia di purezza superiore al 60% (a parere dell’Iaea è già stata oltrepassata). Forse i pensieri del presidente Biden (e della Cia), quelli di John Bolton e dei parlamentari del Congresso si stanno allineando più di quanto si legga nei memorandum ufficiali?
Quanto al Mek di oggi, esso non è più il movimento combattente temuto dagli occidentali ai tempi della guerra tra Iran e Iraq. La disinformazione iraniana ha cercato di screditare a mezzo stampa questa organizzazione persino durante la visita a Roma della signora Rajavi, ospite pochi giorni fa della Fondazione Luigi Einaudi. Maryam Rajavi è una donna musulmana, fortemente religiosa, che sostiene con forza i principi della democrazia liberale, a partire dalla separazione tra potere religioso e potere politico. Come ha sostenuto un ex appartenente ai servizi segreti francesi, «i membri e i sostenitori del Mek in esilio, gli europei e gli americani che sono vicini al movimento, così come gli esperti e i giornalisti, hanno motivo di essere preoccupati per le azioni del regime iraniano». Tra le minacce più serie ci sono le operazioni dei Pasdaran (Irgc, Islamic Revolutionary Guard Corps), che fanno capo al ministry of Intelligence of the Islamic Republic of Iran in un sistema organizzativo dell’intelligence piuttosto simile a quello dei Servizi speciali russi. I pasdaran, molto presenti anche in Italia, sono stati inseriti dal Dipartimento di Stato americano nella lista delle Fto (Foreign Terrorist Organisations), nell’aprile 2019 perché «Irgc partecipa a, finanzia e promuove il terrorismo come mezzo statuale». Anche l’Unione Europea dovrebbe sancire la pericolosità di questa organizzazione, legata a doppio filo agli attori statali più pericolosi per la sicurezza globale, dal Medio Oriente all’America Latina.
* Da Auvers-sur-Oise, Parigi
Marco Rota
Consulente strategico e analista delle Relazioni Internazionali
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