di Andrea Bianchi
Nella prima settimana di dicembre Xi Jinping si è recato dai dignitari della Cooperazione del Golfo per aggiornare la questione di tre piccole isole nello stretto di Hormuz. Oggi esse appartengono all’Iran e sono rivendicate dai plenipotenziari del Golfo. Si tratta della piccola e della grande Tunb e di Abu Musa. Queste tre isole sono fondamentali per l’approvvigionamento energetico cinese. Eppure la notizia dell’appoggio di Xi alle rivendicazioni arabe è rientrata malamente nei monitor dei comunicati stampa, occupati da altre questioni agitate a uso e consumo europeo. Non dimentichiamo che tenere lo Stretto di Hormuz per la Cina importa la stretta via mare dell’India e, quindi, la presa dei mari a sud di Pechino. Sullo sfondo rimane la sua dimostrazione di forza in vista degli scenari di guerra taiwanesi.
Le tre piccole isole che dal 1971 appartengono alla Persia che le occupò dopo i britannici, nel ’79 furono mantenute dalla Repubblica islamica dell’Iran. Fatto curioso, oggi gli opponenti del regime di Tehran sono per una politica estera debole che caldeggia la loro restituzione al mondo arabo dopo la conquista dell’ultimo Pahlavi. Ma cos’è stato detto con poca eleganza diplomatica dagli esponenti del blocco (lo ricordiamo: Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi) a Xi? Testualmente, che occorre proseguire le «negoziazioni bilaterali secondo la legge del diritto internazionale per risolvere la questione [delle tre isole] in armonia con la legittimità internazionale». È da notare che questa sezione decisiva del comunicato era stata censurata per qualche ora da Tehran, poi veniva lasciata filtrare provocando il malcontento popolare, come riportato da Iran International il 12 dicembre.
Ma perché la Cina si presta da sponda alla comunità araba? Dal 2013 quando si reinsedia il governo Obama, la Cina ha premuto per potenziare l’alleanza con l’Iran e il suo programma nucleare, noto come Jpcoa. Nel 2016 essa ha quindi formalizzato una «partnership strategica comprensiva» con Teheran: l’asse di ferro per la cintura di seta fino al Pireo e a Trieste, in attesa di affaticare il fianco orientale europeo per interposta figura nel 2022 in Ucraina.
L’asse di penetrazione da oriente è totale, ma quali ragioni spingono la Cina a spostare il baricentro a sud?
- La questione energetica per garantire l’approvvigionamento energetico dopo un anno di stallo nella crescita economica.
- La spinta a riempire il momentaneo vuoto d’influenza strategica lasciato dagli Stati Uniti in Arabia Saudita, nonostante gli Accordi di Abramo.
- La difesa degli interessi nazionali cinesi all’estero. La Cina ha nei soli Emirati Arabi la metà dei suoi ‘espatriati’ nel mondo medio-orientale (200 mila su 550mila, secondo l’analisi di Jacopo Scita su Rusi).
- Gli attacchi verosimilmente iraniani a fine 2019 rivolti contro le strutture Aramco per la lavorazione del petrolio in Arabia Saudita. Essi hanno mostrato a Pechino che Teheran non persegue né la guerra economica, né quella ibrida: una via di mezzo pericolosa, presto abbandonata a se stessa.
Sorgono quindi due domande davanti allo scenario delineato. Si prospetta la fine di un sostegno prestato a Teheran da 25 anni, nonostante a fine dicembre Pechino abbia poi aperto il primo consolato a Babdar e Abbas? E, soprattutto, ci saranno cambiamenti nella mediazione cinese sul nucleare iraniano? (vedi J. Garner in The Red Star Crescent, report 2017, p. 13). Per abbozzare una prima risposta ai questi quesiti occorrerà tenere inevitabilmente conto dei ricomposti equilibri politici di Israele.
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