Le proteste in Iran di fine dicembre 2017-inizio gennaio 2018 sono state tanto largamente discusse in Occidente quanto velocemente dimenticate una volta passato il clamore. Tuttavia in molti articoli è rimasta presente una considerazione, più o meno così definita: “non è molto chiaro cosa sia successo, perché e perché in quel momento”. Capirlo non è impossibile invece, ma per farlo è necessario conoscere alcuni aspetti del Paese, che vogliamo qui ricordare. A tal proposito ci riferiremo non solo a dati macroeconomici e notizie di vario tipo, ma anche all’esperienza concreta di chi, in Iran, in questi anni ci è stato davvero. Nonostante le difficoltà geopolitiche va infatti detto che l’Iran negli ultimi dieci anni non è mai stato un Paese chiuso al turismo e chi è stato nel Paese dopo il 2013 e si è interfacciato con i locali ci ha raccontato e confermato quanto segue.
Non solo Pasdaran
L’economia iraniana poggia sostanzialmente su due sistemi diversi ma complementari: da un parte c’è un establishment politico-militare legato ai Guardiani della Rivoluzione, ovvero i Pasdaran, che controllano gran parte dell’economia “di peso” del Paese: idrocarburi, grandi industrie, istituzioni finanziarie… Sono gli ambiti che maggiormente si interfacciano con l’esterno e che i leader dei Pasdaran controllano sia tramite gli apparati statali, sia tramite imprese nominalmente private ma che in realtà fanno comunque capo ad esponenti del regime a loro legati (un espediente che ha di fatto neutralizzato il processo di privatizzazione delle imprese statali iniziato nel 2006-2007).
Dall’altra parte vi sono i Bazarji, il popolo dei Bazar, piccoli mercanti, artigiani e piccole imprese che controllano gran parte dell’economia locale di “piccola taglia”. Per quanto appaiano un elemento della società iraniana meno potente dei Pasdaran, di fatto si tratta della fascia sulla quale poggia la vera stabilità economica e sociale del Paese, per il loro ruolo nella vita quotidiana della popolazione e per la loro onnipresenza. Si sono ribellati in massa solo una volta, ed è stato nel 1979 per far cadere lo Shah: il regime teme una loro sollevazione e concentra gli sforzi per evitare che accada perché i Bazar sono comunque i luoghi che creano coesione sociale nelle città e una sollevazione lì potrebbe avere una maggiore incisività a causa della più vasta popolazione che ne verrebbe mobilitata. Per noi occidentali conoscere questo serve soprattutto per ricordare come l’economia in Iran non sia solo costituita dalla grande industria e dagli idrocarburi e che la stabilità va cercata anche nelle connessioni meno appariscenti della società.
Economia in difficoltà
Le sanzioni internazionali sull’Iran, in particolare quelle dal 2009 a oggi, hanno colpito l’economia iraniana che, al contrario di tanti altri Paesi che si affacciano sul Golfo Persico, non è basata unicamente su petrolio e gas naturale (per quanto siano fattori molto importanti). Tre dati su tutti confermano le difficoltà di questi anni: il primo è il PIL pro capite, passato dai 5.419 $ del 2009 al 5.252 $ del 2016; nei Bazar, per tornare al tema precedente, in questi ultimi anni una maggiore collaborazione con la Cina in ambito strategico ed energetico ha portato anche all’arrivo massiccio di merce cinese a basso costo, che ha messo in difficoltà l’artigianato e le piccole imprese locali, cosa del resto avvenuta anche in altri Paesi mediorientali come l’Egitto. Il secondo è la disoccupazione, passata dal 11.9% al 12.6% nello stesso periodo secondo i dati ufficiali (quelli non ufficiali parlano di quasi il doppio, con i giovani particolarmente penalizzati, ad esempio con punte del 38% di giovani disoccupati a Kermanshah).
Il terzo è la svalutazione del rial, la moneta iraniana. Nel 2009 “bastavano” circa 10.000 rial per ogni dollaro, già nel 2014 si era a livelli di 35.000 rial per ogni dollaro secondo il cambio “ufficiale”. Tuttavia il regime ha sempre controllato strettamente la circolazione dei dollari nel Paese, perché sono considerati moneta pregiata prima di tutto per gli alti gradi, quindi l’effettiva capacità di cambio è risultata molto ridotta. Al tempo stesso però, i molti giovani iraniani che vorrebbero andare all’estero a studiare e/o lavorare hanno bisogno di dollari per poterlo fare (è necessario, ad esempio, pagare una tassa), e cercano in ogni modo di trovarne. Questo ha innescato un fiorente mercato aperto (non “nero” semplicemente perché tollerato dalle autorità e spesso condotto alla luce del sole, anche se deprecato) delle valute, con un cambio “non ufficiale” più alto di quanto indicato (minimo 38.000-40.000 rial per ogni dollaro, ma nei bazar si parla anche di cifre più alte). Trovare dollari (e dunque avere la possibilità di andarsene dal Paese) è quindi costoso, e difficile.
Come screditare gli avversari
Alle problematiche economiche di base del Paese si aggiunse poi anni fa un grosso scandalo finanziario che ha visto coinvolte alcune importanti banche iraniane (inclusa la principale del Paese, la Banca Melli) nel 2011 e che ha visto tra gli accusati anche Esfandiar Rahim Mashaei, assistente dell’allora Presidente Mahmoud Ahmadinejad. E’ raro che la notizia di tali scandali raggiunga il pubblico, ma questo caso va inserito anche in una situazione di scontro interno. Ahmadinejad stava infatti cercando di allargare il suo potere personale e vari suoi associati erano intenti ad assumere maggiore potere in ambito economico (lo scandalo stesso consisteva in una frode per ottenere forti finanziamenti volti all’acquisto di imprese statali nazionalizzate), cosa che non è piaciuta ai Guardiani della Rivoluzione. Mostrare gli scandali è stato dunque un mezzo per screditare Ahmadinejad.
Analogamente è stato fatto più recentemente a Giugno 2016 con la denuncia pubblica di alcuni stipendi di dirigenti di banca considerati spropositati rispetto ai salari medi – fenomeno ben conosciuto anche in Occidente, ma esposto per la prima volta in Iran, dove dunque ha avuto una ben più alta risonanza. Si sospetta che anche in questo caso si sia trattata di una mossa degli ambienti legati ai Pasdaran per screditare la squadra del Presidente Hassan Rouhani, e dunque il Presidente stesso.
Tutto questo ha però avuto un effetto secondario probabilmente indesiderato: ha fatto conoscere alla popolazione il clima di corruzione, sprechi e ricchezza esagerata della classe dirigente e ogni eventuale “differenza” tra le parti (che alcuni ambiti volevano forse far notare) è stata di fatto cancellata dallo sdegno generale.
La sfida nascosta al regime
Negli ultimi 8 anni, tuttavia, non si sono verificate proteste di seria entità – almeno fino a queste ultime. Questo potrebbe sembrare strano se pensiamo alle caratteristiche del regime iraniano, che è una teocrazia (dunque una Repubblica di nome, ma che nei fatti vede numerose limitazioni all’esercizio della volontà popolare, dell’espressione e tramite i precetti religiosi anche solo dei rapporti pubblici tra uomini e donne e nell’abbigliamento) dove la libertà di espressione è limitata e i candidati non desiderati non possono presentarsi alle elezioni. Esistono però motivazioni più sottili, che difficilmente si colgono dall’Europa senza avere un contatto diretto con gli iraniani (ad esempio proprio viaggiandoci e parlando con la gente comune). La violenta repressione delle proteste del 2009 ha infatti mostrato alla popolazione giovane di allora l’estrema difficoltà e i rischi dell’affrontare direttamente il regime. Questo ha portato però a una sorta di sfida “dietro le quinte”, meno visibile ma perfino più pervasiva nella società, aiutata dall’aumentato uso degli smartphone (48 milioni di utenti nel 2017 a fronte di appena 1 milione circa nel 2009) e dei social network (Telegram è molto utilizzato come canale di discussione).
Se in pubblico tutta una serie di regole rimangono rigide – e sfidarle è un problema – in privato e nelle case (e intendiamo non solo in ambito coniugale) e in aree lontane dai controlli tutto diventa più flessibile: togliere il velo femminile, il mescolarsi di uomini e donne, gli usi (e gli eccessi) di tipo occidentale diventano comuni. Perfino nell’abbigliamento: nonostante vi sia una crescente rivolta anche in tal senso (come visto proprio recentemente), anche pubblicamente il velo spesso copre solo una minima parte dei capelli e non è raro imbattersi in vetrine che mostrino abbigliamento femminile teoricamente teologicamente “corretto” (copertura da collo a piedi) ma costituito da leggings e maglie lunghe che danno effetto minigonna come in Occidente. Inoltre, perfino le regole più rigide tendono a “diluirsi” più si è lontani dalle città sante e religiosamente maggiormente controllate. Un tassista della zona ovest del Paese, intervistato al riguardo, una volta assicuratosi che la persona con cui parlava non era una spia del regime ha ammesso ad esempio che la separazione uomo-donna in varie parti del Paese non è così rigida, che i taxi stessi (teoricamente divisi tra quelli per uomini e quelli per donne) spesso caricano comunque tutti e, citando le sue parole “le cose stanno cambiando”.
Questo è un effetto della riduzione dei controlli fuori dai principali centri, così come il fatto che nelle regioni periferiche del Paese tendono ad essere più presenti etnie e perfino pratiche religiose (lo zoorastrismo è in crescita) differenti dall’islam sciita dominante. Perfino in quest’ultimo, bisogna ricordare come la posizione governativa ispirata dal famoso concetto del “velayat e-faqih” di Khomeini (“lo stato deve essere guidato dai giuristi islamici”) non sia universalmente accettato dal clero sciita iraniano, dove molte autorità (religiosamente anche superiori alla Guida Suprema Ali Khamenei) preferirebbero un ritorno alla precedente separazione dei ruoli tra – diremmo noi occidentali, semplificando per comprendere – “stato” e “chiesa”.
Questo non significa che non esistano problemi di rigidità nel Paese (soprattutto nelle città sante e nella più controllata Teheran), né che i cambiamenti siano ancora lenti e poco incisivi sulla postura internazionale: il ruolo della donna, i suoi diritti e la separazione dei luoghi pubblici dei due sessi, la mancanza di libertà di espressione o altre restrizioni tipiche del regime rimangono e soprattutto in alcune aree sono rigidamente imposti: ma almeno parte della popolazione (in particolare quella giovane) sta trovano sempre più modi per aggirare le regole quando possibile – una forma di sfida più silenziosa, meno pericolosa ma più pervasiva.
Allo stesso tempo però si è anche avuta l’emersione di eccessi: quando gli iraniani delle classi più umili vengono a conoscenza delle vite lussuose e sregolate dei “rich kids of Teheran” tramite i social network questo tende a porre in evidenza non solo come le regole vengano effettivamente piegate a piacere anche dai figli dei potenti, ma anche come una piccola parte goda di privilegi eccessivi a fronte delle difficoltà del resto della popolazione. Sommato agli scandali sopra menzionati, questo aumenta il risentimento verso la classe dirigente.
I problemi dopo il Nuclear Deal
Questa diffidenza va a sommarsi alla delusione per i risultati ottenuti dal Nuclear Deal con gli USA. Visti come la speranza di un cambiamento di rotta non tanto politicamente ma economicamente, soprattutto nei Bazar si auspicavano maggiori scambi con l’Occidente per migliorare l’economia. Così non è stato sia perché esistono ancora numerose sanzioni in atto che hanno bloccato molti investimenti, sia perché il governo ha concentrato le sue attenzioni sulla politica estera e in particolare sulla sfida regionale contro l’Arabia Saudita e i suoi alleati. Il supporto ad Assad tramite gli Hezbollah e tramite la presenza diretta di forze legate ai Pasdaran (il generale Qassem Suleimani è stato una presenza frequente al fronte in Siria, così come altri alti ufficiali), l’appoggio alle forze sciite in Iraq e il supporto agli Houthi in Yemen – almeno dopo un certo periodo – hanno costituito uno sforzo economico notevole, i cui effetti si sono visti con la pubblicazione del recente budget annuale. Senza entrare nel dettaglio, due sono i punti che hanno maggiormente colpito l’opinione pubblica: la riduzione dei fondi destinati allo sviluppo interno e il contemporaneo aumento dei fondi per gli apparati religiosi e per le operazioni esterne. Questi elementi si sono combinati alle dinamiche sopra espresse e a una serie di aumenti nel costo della vita nelle ultime settimane (ad esempio le uova)
Cosa ci dice tutto questo?
Tutte queste necessarie premesse ci aiutano a capire cosa sia successo in Iran e perché siano iniziate le proteste. Abbiamo infatti una popolazione giovane che pur rifiutando le imposizioni della teocrazia si è abituata a combattere il regime e le sue restrizioni in maniera informale e meno visibile, conoscendo i rischi di una rivolta aperta – che peraltro nemmeno nel 2009 era contro la teocrazia, ma solo contro i risultati elettorali – e rivolta in maniera sempre più aperta alla cultura occidentale (che, si può dire, esercita un considerevole soft power in Iran, basti vedere l’onnipresenza di marchi e simboli occidentali nei negozi – Disney, Barbie, CocaCola, perfino un negozio Ikea).
Una popolazione che però ha iniziato a conoscere solo in tempi relativamente recenti il grado di corruzione e scandali della propria classe dirigente e non ha visto i risultati sperati nelle recenti aperture all’Occidente – mentre ha invece visto una leadership apparentemente più interessata alla politica estera che al benessere dei propri cittadini – senza troppe distinzioni tra primatisti e riformisti.
Da qui le proteste, scoppiate in un momento in cui i problemi esistenti da tempo (mancanza di lavoro, mancanza di sviluppo economico, forte inflazione) sono esplosi a causa dell’innesco costituito dalla pubblicazione del budget in un periodo di rialzo dei prezzi e di maggiore consapevolezza circa scandali ed eccessi. Come suggerisce il giornalista Mohammad Ali Shabani su al-Monitor, in Iran c’erano alte aspettative su un futuro migliore, e nulla mobilita maggiormente della frustrazione che si prova quando tali aspettative vengono deluse così profondamente. Tuttavia, la partecipazione è stata scarsa, si parla di meno di centomila persone in tutto il Paese, meno di cinquantamila secondo il regime: dove era la gente dei bazar, dove la massa che aveva protestato nel 2009? Al di là del passaggio del tempo (i giovani del 2009 hanno oggi 8 anni in più), i riformisti ora al potere non vogliono perdere la Presidenza e, con essa, la possibilità di guidare, per quel che si può, il governo del Paese. Del resto né loro né, come spiegato, molti altri nel Paese credono sia una buona idea affrontare direttamente il regime. E anche nei bazar, in particolare quelli più grandi e rilevanti nelle grandi città, tutto sommato si continua ad andare avanti, sperando anche in un progressivo aumento del turismo. Dunque la protesta è scoppiata solo nelle aree economicamente più depresse o dove le minoranze erano più attive – e, senza appoggio generale, è anche, di fatto, stata repressa.
Il resto sono gli eventi che abbiamo visto raccontati sui media: le proteste nelle varie città, la repressione delle forze di polizia e le controproteste organizzate dai Basiji e da altre forze legate ai conservatori (usuale metodo utilizzato in Iran per non mostrare direttamente la mano del regime nella repressione), fino al parziale – per ora – ritorno alla calma.
Quattro sono pertanto gli aspetti da ricordare:
1) le proteste sono principalmente economiche, perché queste sono le tematiche che colpiscono maggiormente una popolazione che sta combattendo altrimenti la sua battaglia contro il regime – chi protesta può anche aggirare le regole sociali e politiche, ma quelle economiche colpiscono direttamente, e portano più facilmente alla protesta pubblica.
2) la protesta di questo tipo non guarda in faccia a nessuno. Rouhani può essere il moderato, ma è lui a capo del governo ed è possibile che, nonostante le speranze occidentali, alla fine sia lui a pagarne il prezzo, cosa che favorirà i Guardiani della Rivoluzione e i primatisti – già si sospetta che le prime proteste fossero organizzate da questi ultimi contro il Presidente e siano solo successivamente sfuggite di mano, e i Pasdaran stanno già operando per mettere Rouhani nella peggior luce possibile. Come abbiamo detto prima, l’indignazione può essere un’arma contro il nemico politico interno.
3) nessuna rivolta può riuscire in Iran senza una partecipazione popolare più vasta di quella mostrata non solo nelle scorse settimane, ma anche di quelle del 2009. Occhio ai Bazar dunque, più che alla politica internazionale: là si decide il futuro del Paese e non è un caso che il governo li tenga sotto controllo.
4) la società iraniana è sì vulnerabile al soft power occidentale, ma è meglio ricordare anche come essa non incolpi solo i suoi leader della situazione attuale, ma anche i governi occidentali che stanno bloccando gli investimenti, USA in primis.
È dunque bene conoscere la situazione reale all’interno del Paese per comprenderne eventuali sviluppi futuri – e capire come meglio interagire per favorire quei cambiamenti che la stessa popolazione iraniana auspica da tempo.
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