La guerra che Iran e Usa non vogliono combattere

«Il compromesso tra Stati Uniti e Iran è possibile. Ma ci vorrà ancora molto lavoro da entrambe le parti». La pensa così Gawdat Bahgat, professore di Scienze Politiche alla National Defense University. Bahgat, nato in Egitto, è specializzato in politica del Medio Oriente e le sue analisi includono campi come la sicurezza energetica, la cyber security e la proliferazione delle armi nucleari. In Italia per partecipare a un programma del Dipartimento di Stato americano che coinvolge analisti, accademici e studiosi, ha tenuto alcune conferenze presso istituti universitari e accademie militari, come l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli, per favorire la comprensione della politca estera americana e le dinamiche che interessano il Medio Oriente.

Un esame più approfondito sulle politiche dell’Iran suggerisce, scrive Bahgat per The National Interest, che la Repubblica islamica non sia favorevole a cambiare atteggiamento riguardo le proprie capacità missilistiche e i conflitti in corso nella regione. Ma retorica a parte, l’Iran sembrerebbe disponibile a un compromesso sul programma nucleare. Prof. Bahgat, quanto tale compromesso è probabile tra tra Washington e Teheran?

«È una questione centrale per gli Stati Uniti insistere sul punto che l’Iran non arrivi a disporre di armi atomiche. L’Iran ha affermato di non avere interesse a sviluppare armi nucleari e sulla questione Stati Uniti e Iran non hanno posizioni molto divergenti. Tuttavia, esistono altre due questioni rilevanti, che per Teheran sono delle “linee rosse”. Ma in questi casi Washington può incontrare Teheran a metà strada. Una di queste riguarda il programma dei missili balistici. L’Iran considera il programma dei missili balistici necessario alla propria difesa e fondamentale per la propria sicurezza nazionale. L’altra questione riguarda i proxies dell’Iran e le politiche regionali di Teheran. Penso che sullo Yemen Usa e Iran abbiano posizioni simili, entrambi perseguono l’obiettivo di porre fine alla guerra civile».

L’Iran è una nazione sciita in un panorama arabo largamente sunnita, questo pone la Repubblica islamica in minoranza rispetto ai propri vicini. Esistono legami storici tra l’Iran e le comunità etniche e settarie nei Paesi della regione. Hezbollah in Libano, il regime di Assad in Siria e le milizie sciite in Iraq sono per Teheran, secondo Bahgat, una questione di sicurezza nazionale. Hezbollah perché permette la ritorsione agli attacchi di Israele, le milizie sciite e i partiti politici in Iraq assicurano che a Baghdad non ci sia un governo ostile. Con la massima pressione Trump ha cercato di modificare le politiche regionali di Teheran, ma i proxies dell’Iran sono diventati più pericolosi di prima?

«Hezbollah è molto attivo in Libano, gli Houthi sono molto attivi in Yemen. il termine proxies si riferisce a entità che condividono la stessa ideologia, gli stessi obiettivi. Hezbollah è un proxy dell’Iran, ma ciò non significa che prende ordini da Teheran. Gli Houthi in Yemen, invece, sarebbe più giusto definirli un partner dell’Iran. Ci sono alcune differenze, gli Houthi appartengono a un’altra scuola sciita, ma condividono alcuni obiettivi in Yemen. l’Iran dipende molto da questi gruppi e dalle milizie in Iraq e in Siria, questi attori sono parte della strategia di difesa iraniana»

Sin dal 1980 l’Iran ha lavorato al programma missilistico, oggi i missili dell’Iran possono colpire quasi ovunque in Medio Oriente. Il presidente russo Vladimir Putin ha detto di recente che il programma missilistico iraniano dovrebbe essere discusso e trattato come una questione separata da quella che concerne il programma nucleare, cosa ne pensa?

L’Iran percepisce il programma missilistico come una questione chiave per la propria politica di difesa. Questo perché la Repubblica islamica è sotto sanzioni dal 1979 e da allora non è stata in grado di perfezionare e rafforzare le proprie forze aree. Non ha avuto cioè le risorse finanziare per acquistare aerei militari ed è per questo che Teheran concepisce il programma missilistico come l’unica garanzia di sopravvivenza. Quando il presidente Obama ha negoziato l’accordo con l’Iran, ha cercato con molto impegno di far accettare a Teheran delle restrizioni al programma missilistico. L’Iran ha rifiutato. Secondo Teheran, i missili non sono disegnati e costruiti per trasportare testate nucleari. L’Amministrazione Obama ha accettato tale accordo, come il resto della comunità internazionale. Ma il presidente Trump, appena arrivato alla Casa Bianca, ha sollevato di nuovo la questione. Tuttavia, per l’Iran, il programma missilistico non è un argomento negoziabile.

Come giudica la strategia Usa della “massima pressione”?

«La strategia della “massima pressione” che l’Amministrazione Trump persegue nei rapporti con il regime iraniano è un modo per portare di nuovo gli iraniani al tavolo delle trattative per stipulare un accordo migliore di quello del 2015. Un accordo che si avvicini di più alla visione di Trump e che sia, secondo il presidente, maggiormente favorevole agli Stati Uniti. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’economia iraniana si è ridotta di 9,5 punti percentuali. Questo significa che c’è una forte pressione economica sull’Iran. Quello che non sappiamo e se tale pressione economica porterà o meno gli iraniani a negoziare un nuovo accordo. Ma i leader di qualsiasi Paese rispondono alle pressioni economiche al fine di preservare la sopravvivenza del Paese, ciò dipende da quanto un leader sia capace di andare incontro alle necessità del suo popolo»

Le proteste che scuotono oggi il Libano e l’Iraq cosa hanno in comune con le Primavere arabe del 2011? 

«L’unico esempio di Primavera araba riuscita è la Tunisia. Le aspettative delle Primavere arabe erano alte, quelle promesse, però, non si sono materializzate. Oggi in Libano la folla protesta contro il governo. Per quanto riguarda il caso dell’Iraq, Teheran sostiene che le proteste siano appoggiate dall’Arabia Saudita, accusa che Riad ha respinto. Credo però sia ancora troppo presto per dire se le proteste attuali possano tradursi in un’ondata di cambiamento per i governi del mondo arabo».

L’Europa può svolgere un ruolo positivo nella guerra civile in Siria?

«Decisamente. Gli Stati Uniti sono impegnati nella stabilizzazione del Medio Oriente, un’area semplicemente troppo importante per loro. Credo che gli Stati Uniti non lasceranno il Medio Oriente. Restare non significa necessariamente mantenere una presenza militare. Gli Usa continueranno a lavorare insieme agli alleati per ancora molti anni al conflitto tra arabi e israeliani, per stimolare l’economia dell’Egitto e per porre fine alle guerre in Siria e in Yemen. Alcuni Paesi del Medio Oriente si fidano più degli europei che degli americani, il che va bene per gli Stati Uniti. Ma questo è il motivo per cui l’Europa deve giocare un ruolo primario nella stabilizzazione dell’area. Le radici dell’Europa sono in Medio Oriente e tutto ciò che avviene lì ha un impatto diretto sul continente. Gli Usa sarebbero certamente contenti se gli europei contribuissero di più alla stabilizzazione dell’area e al progresso economico e democratico in Medio Oriente».

 

Articolo pubblicato su Il Mattino