Quando il 9 aprile del 2003 a Piazza Firdus gli americani abbattono la statua di Saddam, dal tetto del Palestine potevamo vedere una città di milioni di abitanti completamente svuotata, silenziosa, immobile. Come scrive Giuliana Sgrena nel libro Manifesto per la libertà: «Bastò cambiare un’inquadratura per diffondere al mondo la notizia che una folla inneggiava alla liberazione dal dittatore»
Perché l’Iraq pompa sempre più petrolio – il secondo produttore al mondo – ma produce sempre più rabbia contro il sistema? La ragione profonda è nella sequenza di eventi seguiti alla più devastante fake news contrabbandata dagli Usa nella storia contemporanea e che noi in Europa abbiamo avallato con l’invasione dell’Iraq nel 2003: le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, mai trovate, e la tremenda disillusione seguita all’esportazione della «democrazia» in Medio Oriente, in un Paese che è poi finito, dopo il ritiro degli americani, per metà nelle mani di Al Qaida e del Califfato. Dal 2003 in Iraq ci sono stati 500mila morti, milioni di rifugiati e intere città rase al suolo come nell’assedio di Falluja.
Oggi è rimasto un Iraq «utile», quello dell’oro nero, e uno «inutile», costituito da gran parte della sua popolazione, ostile, al di là delle divisioni settarie sciiti-sunniti, ai suoi stessi governanti. L’industria petrolifera – che esporta 3,6 milioni di barili al giorno, sei-sette volte di più dell’Iran sotto sanzioni – assorbe soltanto l’1 per cento della popolazione attiva, le guerre irachene, compresa quella civile, hanno fatto «lavorare» molta più gente. Le milizie islamiste e poi quelle sciite anti-Isis, insieme a esercito e polizia, sono stati i veri «datori di lavoro» di questo Paese. La fine della guerra al Califfato, con lo scioglimento di molte bande di combattenti, ha portato ancora più disoccupati sulle piazze e nelle strade irachene.
Ecco perché qui nessuno ha celebrato la vittoria contro il Califfato, posto che sia stato del tutto sconfitto o non venga sostituito da qualche alternativa. In tutti i centri urbani dove infiammano le rivolte, le rivendicazioni riguardano la corruzione dilagante nelle istituzioni, il tasso allarmante di disoccupazione giovanile, l’aumento del carovita, la carenza di servizi essenziali. In larga misura i manifestanti sono giovani – prodotto di un incremento demografico molto superiore a quello di Paesi vicini – che combattono l’intero establishment dichiarandosi indipendenti ed estranei a qualsiasi partito politico o fazione religiosa.
L’Iraq- come la Siria e come il destino odierno dei curdi – ci riguarda direttamente: sono le vittime delle nostre menzogne e dei nostri tradimenti, oltre che di governi incapaci e corrotti. Quando il 9 aprile del 2003 a Piazza Firdus gli americani abbattono la statua di Saddam, dal tetto del Palestine potevamo vedere una città di milioni di abitanti completamente svuotata, silenziosa, immobile. Come scrive Giuliana Sgrena nel libro Manifesto per la libertà: «Bastò cambiare un’inquadratura per diffondere al mondo la notizia che una folla inneggiava alla liberazione dal dittatore».
I media accostarono l’evento alla caduta del Muro di Berlino nel 1989: era l’effetto propagandistico che si voleva.
È questo falso clamoroso che hanno pagato gli iracheni negli anni di Al Qaida e dell’Isis e che pagano ancora. Un falso che Usa, europei, Turchia e monarchie arabe hanno cercato di esportare nella Libia di Gheddafi e poi in Siria quando il 6 luglio del 2011 l’ambasciatore americano Robert Ford andò a passeggiare in mezzo ai ribelli di Hama: l’Occidente voleva guidare «da dietro», con i jihadisti, la distruzione di un altro regime baathista e di un alleato dell’Iran.
Cosa è accaduto lo abbiamo sotto gli occhi: la sorte di interi popoli è in mano ad autocrati come Erdogan, Putin e Assad, altro che «esportazione della democrazia». Il popolo iracheno allora – oltre 16 anni fa – non era stato «liberato» come pretendeva la propaganda Usa: era stato preso prigioniero un’altra volta, dopo essere stato ostaggio di Saddam e delle sanzioni internazionali, imposte nei 12 anni precedenti, dopo la guerra del Kuwait nel ’91: 500mila morti iracheni per mancanza di cure e medicine. Ridotti alla fame e alla disperazione, gli iracheni rappresentavano davanti ai nostri occhi il corpo moribondo di una nazione.
Nelle piazze oggi ci sono i figli di quel corpo martoriato e decomposto.
E’ così che si uccidono nazioni e popoli. E i figli adesso hanno ben pochi motivi per sopportare un’oligarchia di partiti corrotti che continuano da accumulare fallimenti altrimenti inspiegabili: il budget annuale iracheno è 112 miliardi di dollari per 38 milioni di persone, l’Iran ne ha 80 e un budget di 47 miliardi, meno della metà. Prima gli iracheni erano strangolati dal terrorismo, dalla criminalità, dall’Isis, dalla guerra civile, ora sono stritolati da un sistema che non li rappresenta perché è solo lo schermo di una cleptocrazia.
Quando il 20 marzo 2003 iniziarono i bombardamenti Usa su Baghdad, la luce verso mezzanotte si spense e il Paese precipitò nel buio: non tornò mai più, per anni, e ancora oggi le tristi e agitate notti irachene hanno come sottofondo il ronzìo dei generatori. Un paradosso per un Paese dove l’oro nero affiora dalla terra ma che importa gas dall’Iran. Ora cercheranno di placare i manifestanti con qualche prebenda o delle finte riforme, fino alla prossima rivolta. Ma in Iraq la luce non torna.
Iraqi demonstrators try to enter Green Zone as they gather for a demonstration against Iraqi government in Baghdad, Iraq on October 01, 2019. [Murtadha Sudani/Anadolu Agency]
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