L’indice della percezione della corruzione mondiale stilato da Transparency International pone l’Iraq all’undicesimo posto dei Paesi più corrotti al mondo. Il primo, per dire è lo stato fallito della Somalia e l’ultimo la virtuosa Danimarca. Questo perché l’Iraq basa il 98% del bilancio nazionale sul petrolio e, in particolare, su quello estratto intorno a Bassora, soprattutto dopo che l’ascesa dello Stato Islamico ha frammentato il Paese portando alla fine della produzione centralizzata del petrolio nazionale.
Fatto che ha permesso, ad esempio, anche al Kurdistan iracheno – un de facto stato autonomo con entrate e uscite gestite direttamente da Erbil – di trattenere per sé i proventi dell’estrazione nel nord est: Erbil rifiuta, infatti, di consegnare la sua produzione petrolifera alla SOMO, l’Organizzazione dello Stato per la Commercializzazione del Petrolio con sede a Baghdad, in particolare a causa di dispute sulla quota del 17% della contribuzione nel bilancio federale del Kurdistan.
La pipeline strategica principale dell’Iraq attraversa tutto il Paese e va sia verso il confine siriano, dove si trova il bacino di Akkas, non lontano da Al Qaim (oggi sotto controllo dello Stato Islamico), sia verso il Golfo Persico, passando da Ramadi e Bassora. L’altra pipeline strategica passa da Mosul verso la Turchia ma, al momento, non è disponibile causa conflitto in corso.
Il nodo di Bassora
A Bassora, sotto il pieno controllo del governo, oleodotti e gasdotti convergono, per poi raggiungere i terminal petroliferi offshore di Khor al-Amaya e da lì irradiarsi nel Golfo Persico pronti per l’esportazione. Il processo di caricamento del greggio richiede solitamente 48-56 ore e avviene in presenza dei rappresentanti delle società acquirenti, della SOMO, e sotto la supervisione dalla Intertek, unamultinazionale con sede a Londra specializzata nelle ispezioni a produttori, retailers e distributori, governi ed associazioni, agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni simili sin dall’Ottocento.
La pipeline strategica principale dell’Iraq attraversa tutto il Paese e va sia verso il confine siriano, dove si trova il bacino di Akkas, non lontano da Al Qaim (oggi sotto controllo dello Stato Islamico), sia verso il Golfo Persico, passando da Ramadi e Bassora
Ora, il punto è che proprio lo stato di guerra generatosi nel 2014 ha dilaniato l’economia nazionale e ha portato come conseguenza a un impennarsi della corruzione e del contrabbando petrolifero. L’ex premier iracheno Nouri Al Maliki, ancor prima dell’insorgere del Califfato, formò una Commissione d’indagine sulla dispersione del petrolio proprio nell’area di Bassora, informato di alcune discrepanze nei conti pubblici e di una produzione registrata inferiore alle attese. La Commissione, però, non ottenne risultati significativi. Anche perché, secondo le accuse dell’epoca, i responsabili erano gli stessi soggetti che beneficiavano del contrabbando di petrolio e che perciò nascondevano informazioni.
La denuncia contro il ministero del Petrolio
Oggi la materia è tornata d’attualità: il servizio di sicurezza nazionale il 15 gennaio ha inviato una lettera al ministero del Petrolio denunciando il furto di qualcosa come 100mila o addirittura 300mila barili di petrolio al giorno che, sebbene estratti e pompati negli oleodotti, svaniscono una volta arrivati a Bassora. Da incontri periodici del ministero con varie società di test internazionali, inoltre, è emerso come lo squilibrio tra il petrolio estratto e quello giunto a destinazione sia un fatto reale e comprovato. Anche per tali ragioni, più di una società di monitoraggio internazionale si è ritirata dall’Iraq, proprio in polemica con gli sprechi e la corruzione degli addetti ai lavori che, secondo alcuni, arriverebbero a far scomparire sino al 50% del totale, per poi rivenderlo attraverso i canali del contrabbando.
Secondo le stime di queste società, come riportato anche da fonti di stampa tra cui l’osservatorio Al Monitor, l’Iraq attualmente starebbe perdendo qualcosa come 20 milioni di dollari ogni giorno di esportazioni di petrolio a causa di questo sistema corruttivo, che comporta per Baghdad una perdita di ben 7 miliardi di dollari l’anno.
Ma la storia insegna che per tenere in piedi per anni questo genere di commerci illegali, non bastano le complicità tra imprenditori, addetti al settore e contrabbandieri. Servono le coperture politiche. Ed è il perno della lettera di denuncia del servizio di sicurezza nazionale. Sadeq al-Mhanna, parlamentare della National Alliance sciita, ha dichiarato in merito: «Molti partiti sono coinvolti nel contrabbando di petrolio, e dovrebbero essere ritenuti responsabili per questo. Ho intrapreso le misure giuridiche necessarie e affrontato il primo ministro e il Ministero del Petrolio, esortandoli ad agire contro la corruzione dei partiti, ma senza alcun risultato […] anche se il ministero del Petrolio ha installato contatori per misurare il petrolio nei porti di Bassora, questi contatori non sono stati calibrati correttamente. Nel 2013 sono stati sostituiti, ma il problema persisteva. Il ministero del Petrolio ha accusato della dispersione di petrolio i contratti di servizio stipulati con le compagnie petrolifere straniere. Tuttavia, non può essere, poiché queste società non sono responsabili per i contatori di petrolio».
Chi è responsabile del furto?
Il problema dei contatori non è da sottovalutare, e la querelle sui metodi di rilevamento è annosa. In ogni caso, un comunicato stampa rilasciato dal ministero del Petrolio a nome del direttore del porto di Bassora, Khalil Hantoush, afferma: «la capacità attuale del porto è 1.850 milioni di barili al giorno per quattro terminal. C’è una commissione composta da rappresentanti della South Oil Company, dalla società acquirente e dall’azienda di controllo internazionale, che fa le misurazioni sul vettore prima di caricare il petrolio. E un’altra commissione poi misura la quantità di petrolio una volta introdotto sul vettore».
In Iraq la storia insegna che per tenere in piedi per anni questo genere di commerci illegali, non bastano le complicità tra imprenditori, addetti al settore e contrabbandieri. Servono le coperture politiche
La procedura descritta dal ministero è, in realtà, molto complessa e affidata a troppe persone, tale per cui la possibilità di contrabbando e corruzione – specie quando si ha a che fare con compagnie straniere – si annida proprio in questo delicato passaggio di caricamento. Ma, come riporta ancora Al Monitor, le aziende internazionali che operano nel settore di Bassora, come tra gli altri l’americana ExxonMobil e l’inglese BP, vengono pagate per ogni singolo barile che esse producono, il che significa che per loro sarebbe impossibile rubare grandi quantità di petrolio senza conseguenze. Di certo, non 300mila barili. Il che riconduce al fatto che il problema sia interno all’Iraq e ai responsabili iracheni.
Presente e futuro
Il petrolio ma anche il gas, soprattutto in Iraq ma in parte anche in Siria, sono una tra le questioni più controverse dell’economia locale. Di certo, per Baghdad lo era ancor prima dell’ultima guerra, considerato anche il fatto che i contratti stipulati dal ministero del Petrolio con le controparti non sono mai stati resi noti, e che le procedure di funzionamento dell’intero settore non sono pubbliche.
Con l’esplosione dell’ultimo conflitto, che ha portato alla dispersione energetica e alla frantumazione delle province, all’innalzamento dei prezzi e alla disoccupazione, e più in generale a difficoltà crescenti per l’intera popolazione, non deve stupire che si sia creato un mercato alternativo a quello legale, un’economia di guerra che si sovrappone alla corruzione endemica di un Paese piagato dalla sua totale dipendenza da una singola fonte di ricchezza.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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