Chi crede che lo Stato Islamico nel Siraq sia stato definitivamente sconfitto e che, di conseguenza, non abbia più i mezzi finanziari per condurre la sua battaglia contro l’Occidente, dovrà ricredersi.
Le strutture di intelligence americane e russe avevano già messo in guardia i servizi segreti di alcuni Paesi europei sul fattto che il “Dawlat al Islamyya”, benché sconfitto militarmente, ha mantenuto il controllo di alcune aree territoriali tra la Siria e l’Iraq e che, soprattutto, può ancora contare su una considerevole ricchezza.
L’allerta ha spinto le agenzie europee ad approfondire la questione, e i riscontri ottenuti sono stati peggiori del previsto. Grazie al denaro che lo Stato Islamico è riuscito a non disperdere in questi ultimi mesi di ritirate e cocenti sconfitte, si sta avviando con grande cautela la seconda fase del Califfato. In questo senso va letto il silenzio di Abu Bakr Al Baghdadi, immersosi nella clandestinità pare nel Khyber-Paktunkhwa, meglio conosciuto come Sarhad – una delle quattro province del Pakistan la cui capitale è Peshawar, particolarmente permeabile al terrorismo islamico – o nelle Fata (Federally Administered Tribal Areas).
Luoghi impervi e inospitali sparsi tra il territorio pakistano e il confine afghano dove si troverebbero sia Al Baghdadi sia il suo “avversario”, ovvero il leader di Al Qaeda Ayaman Al Zawahiri, seppur a debita distanza di sicurezza. Trattandosi di un’area di 27.220 km quadrati, lo spazio per far perdere le proprie tracce non manca di sicuro, in particolare in quel 30% di territorio controllato da clan di etnia pashtun che sanno molto bene come tenere lontano chi si azzarda a metterci piede.
Stando alle ultime dei servizi segreti di Washington e Mosca, ISIS possiede ancora oggi un patrimonio di circa 3 miliardi di euro, tutto denaro utile per finanziare la sua riorganizzazione e la vita in clandestinità dei suoi leader, senza dimenticare la possibilità di poter finanziare atti terroristici eclatanti in Europa, magari con droni con a bordo sostanze chimiche, minaccia quest’ultima di cui si è discusso a porte chiuse in un recente vertice a Parigi.
Nei piani dell’ISIS c’è il cosiddetto “atto grosso”, vale a dire un’azione dirompente che permetterebbe all’organizzazione di Al Baghdadi di riprendersi la scena mediatica internazionale che oggigiorno risulta appannata. Difatti, la continua chiusura dei canali di propaganda sul web, le numerose operazioni antiterrorismo e gli arresti eccellenti hanno innegabilmente ridotto il numero di giovani affascinati dalla narrativa jihadista, da qui l’urgenza di dare una dimostrazione di forza, di potenza. Ecco perché il prossimo Ramadan (16 maggio-14 giugno) è atteso con preoccupazione costante dai servizi di intelligence europei.
Occorre inoltre ricordare come nei tre anni di massima potenza il Califfato abbia potuto sfuttare i giacimenti petroliferi di tutto il nord Iraq e della Siria, ma non solo. Per lo Stato Islamico anche il 40% della produzione di cereali in Iraq e l’80% del cotone siriano si sono trasformati in dollari sonanti. A riempire i forzieri delle bandiere nere ha contribuito anche il Ministero di Ghanima (“bottino” in arabo), che ha fruttato almeno 1,5 miliardi dollari, guadagnati con le confische delle terre ai cristiani, agli sciiti e agli yazidi, poi affittate ai sostenitori dell’ISIS. A ciò si sono aggiunte multe e tasse su tutte le transazioni economiche locali, dai commerci ai trasporti. Persino i certificati di matrimonio o di nascita venivano tassati.
Anche i tribunali islamici hanno fatto lievitare gli affari con le multe comminate dalla polizia religiosa nei confronti di chi trasgrediva la “morale pubblica” (Hisba). Sanzioni venivano comminate anche a chi portava la barba troppo corta, a chi veniva sorpreso a fumare o a bere alcool, oppure quando il velo delle donne non era “abbastanza integrale”.
La domanda che oggi tutti ancora si pongono è dove sono andati finire tutti questi soldi? Negli anni l’ISIS ha reinvestito in Medio Oriente tutto il denaro accumulato con i loschi traffici dei vari racket controllati non solo in Siria e Iraq ma anche in Turchia, dove le banche si sono dimostrate più che ospitali verso centinaia di foreign fighters che vedevano accreditarsi lo stipendio mensile in conti aperti nel Paese della Mezzaluna. Soldi serviti per avviare piccole imprese, gestite oggi da ex combattenti fuggiti per tempo prima del collasso dell’ISIS. Chi ha il compito di reinvestire il denaro del Califfo, ha dimostrato finora di sapersi muovere molto bene. Persino 400 dei 2.000 allevamenti di carpe, un pesce molto apprezzato dagli iracheni, erano intestati a prestanome collegati all’ISIS.
A fronte dei miliardi di dollari guadagnati con il contrabbando di petrolio, il taglieggiamento di alcune imprese straniere (vedi il gruppo Lafarge che pagava per continuare a produrre cemento in Siria), il traffico di armi, di opere d’arte e altri traffici infami come quello delle schiave yazide, fa davvero sorridere il recente annuncio in pompa magna della scoperta in Francia di 461 “donatori” che hanno inviato soldi all’ISIS. La ricchezza del Califfato ha ben altre proporzioni.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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