A meno di una settimana dalle ennesime elezioni in Israele, pubblichiamo un articolo uscito nel quinto numero della rivista ItalianiEuropei, all’inizio dello scorso autunno.
Come è apparsa all’orizzonte, sollevando paure e reazioni (e, per la verità, scarso interesse nella stampa internazionale, zero in quella italiana), così la fatidica annessione è uscita di scena. In modo talmente repentino da far sospettare che sulla scena non ci sia mai stata veramente se non come tromp l’oeil.
Il primo di luglio era la data. Fino a circa il 28 di giugno, Bibi Netanyahu parlava d’integrazione ineluttabile allo stato d’Israele di un altro terzo dei Territori occupati palestinesi, valle del Giordano compresa. Era una prospettiva interessante perché gli israeliani dimenticassero che per la prima volta nella loro storia un primo ministro in carica deve rispondere in tribunale di tre accuse di corruzione. Poi, negli ultimi due giorni di giugno e nel primo fatidico di luglio, silenzio assoluto di Bibi. Dal giorno seguente è invece tornato ai due temi sui quali gli è ancora più facile ottenere l’attenzione ed eventualmente il consenso dell’opinione pubblica: la pandemia del Covid e la minaccia iraniana.
Benjamin Netanyahu è un politico abile, fortunato e ingannevole. In un certo senso la nuova e preoccupante diffusione del contagio è stata un colpo di fortuna per lui: gli ha permesso di tornare a qualcosa di veramente concreto senza che gli israeliani, troppo preoccupati per la loro salute, gli chiedessero che fine avesse fatto l’annessione. Gli elettori lo hanno criticato per la gestione sanitaria. Ma diversamente dal negazionismo di Donald Trump e Jair Bolsonaro, suoi sodali in populismo, Bibi ha preso sul serio il virus: ha solo commesso gli ammissibili errori di ogni altro leader al mondo, in ogni paese aggredito da un nemico così imprevedibile e aggressivo.
All’inizio del 2020 la disoccupazione in Israele era al 4%, ora ha superato il 21. In caso di seconda ondata di contagi, l’OCSE aveva previsto che l’economia sarebbe crollata dell’8,3%. La nuova ondata è avvenuta e la crisi è una realtà più che palpabile. Ma Bibi tiene il potere e il centro della scena. È premier ininterrottamente da 11 anni, più i tre a partire dal 1996. In sette elezioni nazionali è sempre riuscito a mantenere la carica vincendo per pochi voti, mai con un plebiscito; a volte perdendo, sapendo comunque conservare il potere grazie alla sua capacità di coalizzare le destre del paese attorno al Likud, il suo partito.
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Nella biografia “Bibi – The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu” (Basic Books, New York, 2018), Anshel Pfeffer scrive che il sionismo politico è “diviso fra coloro che credono nella cooperazione con la comunità internazionale e cercano un accomodamento con gli arabi; e quelli convinti che gli ebrei debbano perseguire risolutamente il loro interesse nazionale senza essere dissuasi dalle opposizioni locali o dall’opinione pubblica internazionale. La questione è rimasta la principale linea di faglia della politica israeliana”. È evidente che Netanyahu sia il campione di questo secondo Israele; che lo sia più di Menachem Begin, il leader del sionismo revisionista di destra dalla fondazione d’Israele fino agli anni ’80, l’uomo che portò il Likud al governo; ed è ormai evidente che questa corrente oggi definibile come nazional-religiosa, avendo perso lungo il cammino la sua originale laicità, sia quella dominante nel paese. Dal 1977, quando Begin portò per la prima volta il Likud alla vittoria elettorale, i laburisti hanno vinto solo due volte e con maggioranze deboli: nel 1992 con Yitzhak Rabin e nel 1999 con Ehud Barak, entrambi ex comandanti delle forze armate. Dopo di loro il laburismo israeliano è progressivamente scomparso dalla scena politica.
I due premier che dalla crisi di Oslo hanno compiuto gesti concreti, utili a una pace con i palestinesi, più di Rabin e Barak sono stati due uomini di destra: Ariel Sharon e Ehud Olmert, usciti dal Likud per fondare Kadima, sempre un partito di destra. Il primo aveva imposto nel 2004 il disimpegno unilaterale israeliano dalla striscia di Gaza e smantellato alcuni insediamenti anche in Cisgiordania. Prima dei laburisti, e dopo aver inseguito per tutta la vita Arafat come uno dei due duellanti di Conrad, Sharon aveva capito che un Israele più piccolo ma demograficamente compatto, avrebbe salvato la sua anima ebraica e democratica. Solo un ictus fermò il suo disegno.
Quattro anni più tardi Olmert, il suo erede politico, aveva offerto il miglior accordo possibile – non perfetto ma possibile, data la realtà sul campo – respinto da Abu Mazen. Erano di destra anche i due avversari di Bibi Netaniahu capaci di batterlo alle elezioni ma non di coalizzare attorno a se una maggioranza parlamentare nel sistema ultra-proporzionale israeliano: Tzipi Livni nel 2015 e Benny Ganz alle ultime elezioni di marzo. Arrivata ad allearsi con gli ultimi resti vagamente vitali del Labour, Livni aveva un pedigree di destra non meno autorevole di quello di Netanyahu. Ed è difficile collocare nel centro-sinistra Kahol Lavan, il nuovo partito di Gantz. In economia c’è qualche segno di progressismo; ma sul piano della sicurezza e della questione palestinese, le differenze tra Likud e Kahol Lavan, fra Netanyahu e Gantz, sono impercettibili.
La ragione forse più evidente di questo massiccio e persistente spostamento a destra di Israele, è stata la seconda Intifada palestinese e la successiva crisi mortale della trattativa di Oslo con la sua formula dei “due stati per due popoli”. Dopo il vertice di Camp David del luglio 2000, per giustificare il loro fallimento, i laburisti spiegarono che Israele aveva offerto ai palestinesi il massimo mai negoziato; che Arafat aveva rifiutato ed era tornato in Palestina a organizzare la rivolta. Era solo una parte della verità: anche i palestinesi avevano le loro ragioni e Arafat aveva, come Barak, una opinione pubblica cui rispondere.
Ma l’Intifada iniziò, nessuno fu capace di fermarla, e fu devastante. A un passo dalla pace il terrorismo palestinese provocò centinaia di vittime civili israeliane; le distruzioni provocate dagli israeliani portarono i Territori occupati al disastro politico ed economico e alla sparizione di una nuova generazione di leader: uccisi o finiti nelle prigioni israeliane. L’Autorità palestinese oggi è governata dai dinosauri dell’Olp tornati dall’esilio di Tunisi.
La prima Intifada dalla fine del 1987 alla firma degli accordi di Oslo, a Washington nel 1993, era stata la disobbedienza civile di un popolo: una rivolta spontanea contro l’occupazione che risvegliò la coscienza democratica degli israeliani. Grazie a questo Yitzhak Rabin riuscì a vincere le elezioni del 1992. Le violenze della seconda Intifada convinsero invece gli israeliani che con i palestinesi fosse impossibile raggiungere un compromesso politico: ciò che le destre avevano sempre sostenuto. Il campo della pace israeliano perse ogni credibilità, la sinistra rimase senza una prospettiva politica, la destra conquistò scena e consensi.
Qualche anno fa Nahum Barnea di Yediot Ahronot, forse il giornalista più autorevole d’Israele, scrisse che “gli israeliani sono abituati a progettare la loro vita con la guerra. Sono nati un anno dopo la guerra, sono andati sotto le armi un anno prima della guerra, si sono sposati giusto dopo una terza guerra e hanno avuto un figlio prima o dopo la guerra successiva”. C’era Gamal Nasser, poi Saddam Hussein, ora gli iraniani; Arafat e poi Hamas: c’è sempre stato un nemico contro il quale combattere, a volte realmente pericoloso, altre molto meno ma necessario alla compattezza nazionale.
È questo il contesto di conflitto permanente, di rassegnazione a una supposta assenza di alternative che cementa il consenso per le destre. Nessuno più di Bibi Netanyahu ha saputo manipolare la coscienza pubblica israeliana per costruire il suo potere fondato su una parola chiave – Bitakon, sicurezza – e sull’uso di una retorica inimitabile. Negli anni Ottanta, quando era negli Stati Uniti prima da portavoce dell’ambasciata israeliana e poi ambasciatore all’Onu, Bibi era l’ospite preferito dei dibattiti televisivi. “Su una scala da 1 a 10, come grande ospite vale 8”, diceva di lui Larry King di CNN. “Se avesse anche senso dell’humor varrebbe 10”.
Oggi il premier israeliano è uno degli esponenti del nazional-populismo globale. Ma di questo movimento in apparente ascesa nei sistemi democratici e semi-democratici, è l’antesignano. Diversamente da Donald Trump, Bibi è un intellettuale e un ideologo. Suo padre era il principale studioso israeliano dell’inquisizione spagnola, ha frequentato le migliori scuole d’America dove ha vissuto quasi la metà della sua vita, si è laureato con lode al MIT. Aveva iniziato una carriera alla Boston Consulting, il gigante americano della consulenza manageriale, quando il nazionalismo e la passione politica lo chiamarono in Israele. Come Trump, secondo Anshel Pfeffer, Bibi “ha una sconcertante abilità di percepire il punto debole dei rivali e di annusare la paura interiore dei suoi elettori”. Ma è da Netanyahu che il presidente americano ha imparato quella modalità da campagna elettorale perpetua che lo ha sempre reso un avversario difficile da battere.
L’uso dell’annessione annunciata e poi ignorata, è un esempio di questo comportamento politico: portare all’estremo sia l’intenzione di un gesto eclatante che poi la sua stessa negazione. Sono stati molti gli appelli internazionali a fermare una decisione che avrebbe annullato definitivamente l’ipotesi dei due stati. Due i più efficaci: la richiesta americana di soprassedere almeno per il momento perché la campagna elettorale di Trump aveva molti altri problemi da affrontare; e quella russa. Per molti israeliani, soprattutto l’influente e vasta minoranza di origini russe, Vladimir Putin è un modello di leadership da imitare. Per Bibi è un alleato prezioso che nelle ultime tre elezioni in meno di un anno, ha palesemente fatto campagna per lui. Il presidente russo ha contatti diretti con l’Iran, la Siria, Hezbollah e Hamas, sui quali la diplomazia americana non ha la minima influenza.
Ma la modalità da campagna elettorale perpetua, il fiuto per capire di cosa ha paura la gente, non potevano ignorare la crisi economica causata dalla pandemia e i costi dell’annessione. Secondo uno studio dei “Commanders for Israel’s security”, un’organizzazione che riunisce ex generali e capi dei servizi segreti favorevoli a un compromesso con i palestinesi, una terza Intifada costerebbe fra 11 e 22,5 miliardi di dollari per i prossimi tre anni. Le cifre sono forse un po’ gonfiate per fini politici ma il costo sarebbe comunque importante. Anche senza una rivolta armata, il collasso dell’Autorità palestinese conseguente all’annessione avrebbe comunque costi pesanti. Il bilancio annuale dell’autonomia palestinese è di 5 miliardi di dollari. Cesserebbe l’aiuto internazionale ai palestinesi – soprattutto europeo – da 640 milioni l’anno. E Israele sarebbe costretto a occuparsi del welfare dei tre milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania. I “Commanders for Israel’s security” prevedono anche costi non militari per 18,2 miliardi l’anno. Sono cifre che Bibi Netanyahu non aveva mai presentato, quando spiegava i benefici che Israele avrebbe avuto da una nuova annessione territoriale. E non sono costi che un animale politico come lui può presentare agli elettori, ora terrorizzati dal virus.
Articolo pubblicato da Ugo Tramballi su Facebook
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