Sono solo 12 le ambasciate israeliane sul continente africano, alle quali potrebbe aggiungersene a breve una tredicesima, all’indomani dell’annunciata normalizzazione dei rapporti tra Khartoum e Tel Aviv con gli accordi del 23 ottobre 2020.
Le rappresentanze diplomatiche di Israele in Africa sono presenti in Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea, Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria, Ruanda, Senegal e Sud Africa, mentre sono ancora nove i paesi che nello stesso continente non riconoscono lo stato ebraico (Algeria, Comore, Gibuti, Mali, Marocco, Niger, Somalia e Tunisia).
Ne emerge una particolare mappatura degli interessi israeliani nel continente, dominata dal peso della regione del Corno d’Africa, dove tende a concentrarsi non solo il maggior numero di ambasciate ma anche e soprattutto il più intenso volume degli interscambi economici e degli interessi industriali.
Prioritaria, per Israele, resta la sicurezza del Mar Rosso, a garanzia dei flussi marittimi in direzione di Eliat e di Suez, sebbene anche il contenimento dell’Iran abbia assunto nel corso del tempo un valore significativo nel calcolo dell’interesse regionale di Tel Aviv.
L’Africa e il Mar Rosso nella visione strategica di Israele
Nei primi anni settanta del XX secolo molti paesi africani optarono per la chiusura delle relazioni diplomatiche con Israele, in seguito ai conflitti che ne avevano caratterizzato le sempre più tempestose relazioni con alcuni stati arabi.
A spingere per l’isolamento diplomatico ed economico di Israele sul continente africano furono in particolar modo la Libia di Muhammar Gheddafi, l’Arabia Saudita di Re Faisal e l’Egitto di Anwar Sadat. Mentre Tripoli e Riyadh promettevano petrolio a buon mercato per chi aderisse alla loro richiesta di chiusura dei rapporti con Tel Aviv, il Cairo puntava invece sulla risoluzione proposta in seno all’Organizzazione dell’Unità Africana all’indomani della guerra dello Yom Kippur del 1973, ottenendo nel complesso una significativa risposta.
Per oltre trent’anni, in tal modo, le relazioni di Israele con l’Africa sono state ridotte a un ristretto numero di paesi con i quali Tel Aviv era riuscita a salvaguardare le proprie relazioni diplomatiche, dovendo suo malgrado subire un forte ridimensionamento degli interscambi commerciali.
Dopo tre decadi di assenza dal continente africano, fu il primo ministro Benjamin Netanyahu il primo esponente di governo a tornarci in visita ufficiale nel 2016, concentrando le tappe del suo viaggio principalmente nella regione del Corno d’Africa, e in particolar modo in Etiopia, Kenya, Ruanda e Uganda. Mancò l’Eritrea, all’epoca, a causa delle crescenti tensioni con gli Stati Uniti e delle sanzioni comminate per le sospette collusioni con le milizie jihadiste dell’al Shabaab somalo, sebbene i rapporti bilaterali fossero sostanzialmente stabili e le rappresentanze diplomatiche aperte e operative.
Il primo ministro Netanyahu è tornato in Africa nel 2017, prima in Liberia nel mese di giugno per il summit dell’Ecowas e poi nuovamente a novembre in Kenya, dove incontrò undici capi di stato africani.
Tornò ancora in Africa nel gennaio del 2019, ristabilendo le relazioni diplomatiche con il Ciad, e poi nuovamente nel febbraio del 2020, quando ha visitato l’Uganda e il Sudan, preparando il terreno per quel dialogo politico che l’avrebbe portato successivamente – su iniziativa degli Stati Uniti – a firmare gli accordi del 23 ottobre del 2020 con i quali sono state normalizzate le relazioni politiche con Khartoum, sebbene non sia disponga di informazioni circa il riavvio delle relazioni diplomatiche.
Il rinnovato interesse di Israele per l’Africa, nel solco della politica avviata negli anni ’50 dall’allora ministro degli esteri Golda Meir, è caratterizzato da un duplice binario d’azione, parallelamente sviluppato sulla costruzione di accordi economici e di gestione della sicurezza.
In tale ottica, quindi, è agevole comprendere come la priorità di queste rinnovate relazioni abbia privilegiato il rafforzamento e la ricostruzione del rapporto politico con numerosi paesi del Corno d’Africa, dove Israele coltiva da sempre un radicato interesse per la gestione della sicurezza soprattutto nel Mar Rosso.
La sicurezza dei flussi marittimi che interessano i porti israeliani tanto nel Mar Rosso quanto sul Mediterraneo ha sempre spinto Israele a esercitare un’autonoma azione di proiezione nella regione, coltivando storicamente soprattutto con l’Etiopia un rapporto privilegiato, grazie al quale ha potuto discretamente godere di approdi lungo la costa dell’Eritrea sino alla fine della guerra di indipendenza, nel 1991.
La rinnovata capacità della proiezione militare navale della Repubblica Islamica dell’Iran nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso, costituisce oggi un ulteriore elemento di interesse per Israele, che intende contrastare la capacità di Tehran sia attraverso la propria accresciuta presenza, sia attraverso la normalizzazione dei propri rapporti con un numero crescente di stati della regione.
Israele nel Corno d’Africa
Il successo diplomatico di maggiore entità conseguito da Israele in tempi recenti è senz’altro quello della ripresa delle relazioni con il Sudan, che Tel Aviv ha a lungo considerato come il principale punto di ingresso degli aiuti militari iraniani non solo nella regione ma anche e soprattutto a favore dei palestinesi di Hamas, lungo un complesso circuito che dal Mar Rosso raggiungeva la penisola del Sinai, in direzione di Gaza.
La rottura delle relazioni diplomatiche tra Sudan e Iran, consumatasi nel gennaio del 2016, aveva aperto una finestra di opportunità per Israele, poi concretizzatasi successivamente alla caduta del regime di Omar al-Bashir nell’aprile del 2019, e quindi caldeggiata dagli Stati Uniti nell’ottobre del corrente anno nell’ottica di un rafforzamento dell’asse regionale anti-iraniano.
L’adesione del Sudan alle richieste degli Stati Uniti per la ripresa delle relazioni con Israele è costruita tuttavia su fondamenta alquanto fragili. Khartoum ha accettato al solo fine di vedere revocato il proprio inserimento nell’elenco delle nazioni che il Dipartimento di Stato USA indica come sponsor del terrorismo, permettendo in tal modo anche la ripresa degli aiuti umanitari urgentemente necessari per assicurare la stabilità delle autorità provvisorie di governo del paese.
Come la gran parte dei paesi della regione che ha accettato di riaprire alle relazioni con Israele, tuttavia, deve prestare una particolare cautela sul piano sociale interno, al fine di impedire l’emergere di contrasti violenti o, peggio, la creazione di una nuova generazione di jihadisti.
Anche le relazioni tra Israele ed Etiopia hanno subito andamenti altalenanti nel corso del tempo. Sede di un’antica comunità ebraica, l’Etiopia riconobbe sin dapprincipio lo stato di Israele, avviando una proficua quanto discreta collaborazione soprattutto sul piano militare. Per quanto Israele avesse aiutato il governo dell’imperatore Haile Selassie nella repressione delle istanze indipendentiste eritree e nel sedare le proteste in Oromia, l’imperatore fu costretto a interrompere le relazioni diplomatiche nel 1973, sotto le forti pressioni della Libia e dell’Algeria, che accusavano l’Etiopia di aver concesso una base militare ad Israele nelle isole Dhalak.
La cooperazione tra Tel Aviv e Addis Abeba, in realtà, continuò anche dopo il colpo di stato che nel 1974 aveva portato al potere la giunta militare del Derg, fino al 1978, quando Menghistu fu costretto ad espellere tutti gli israeliani all’indomani dell’ammissione da parte del ministro degli esteri israeliano Moshe Dayan della sussistenza di una collaborazione. Ancora una volta, tuttavia, il pragmatismo del Derg portò a ristabilire i rapporti con Israele verso la fine degli anni ’80, beneficiando del supporto militare nel corso delle ultime fasi della guerra civile.
Particolarmente importante, nella storia delle relazioni tra i due paesi, è l’operazione segreta attraverso la quale Israele riuscì a portare fuori dall’Etiopia tra la fine degli anni ’70 e quella degli ’80 buona parte della comunità ebraica locale, trasferendola in Israele.
Con la sconfitta del Derg e la nomina di Meles Zenawi alla carica di primo ministro, le relazioni tra Addis Abeba e Tel Aviv ripresero d’intensità, consolidandosi progressivamente nel tempo. Un deciso impulso alla crescita delle relazioni è stato dato dall’attuale primo ministro, Abiy Ahmed, che nel settembre del 2019 si è recato in visita in Israele, siglando un accordo di cooperazione economica e militare.
In questo contesto, Tel Aviv guarda oggi da una parte con grande interesse alla cooperazione con l’Etiopia, sebbene al tempo stesso segua con preoccupazione lo sviluppo della crisi tra Etiopia ed Egitto relativa alla questione della diga del GERD, in merito alla quale Israele non vuole rischiare di generare attriti con l’Egitto. Una mediazione discreta è stata quindi adottata nella ricerca di un dialogo regionale (che includa il Sudan), senza tuttavia riuscire allo stato attuale a produrre significativi risultati.
Come annunciato il 5 novembre scorso dall’Ethiopian National Intelligence and Security Service (NISS), Israele ed Etiopia hanno invece siglato un accordo di cooperazione sul piano dell’intelligence, per fronteggiare la minaccia terroristica e cooperare nella condivisione delle informazioni relative alla sicurezza regionale. La cooperazione, sancita dal direttore del NISS Demelash Gebremichael e dal Vice Ministro per la Sicurezza israeliano Gadi Yevarkan, è da molti considerata funzionale alla gestione della grave crisi politica e militare determinatasi nella regione del Tigrai etiopico, e quindi finalizzata a fornire un tangibile contributo alla capacità militare del governo federale nel ripristinare la piena sovranità nella lotta alle forze del TPLF.
Più a sud, i rapporti tra Eritrea e Israele sono stati caratterizzati da un’iniziale apertura all’indomani dell’indipendenza di Asmara dall’Etiopia, nel 1991, quando l’Eritrea di Isaias Afewrki guardò con interesse alla possibilità di una partnership con Tel Aviv soprattutto sul piano della sicurezza e dello sviluppo infrastrutturale, nonostante il lungo sostegno fornito al Derg contro la causa dell’indipendenza eritrea.
Il perdurare delle tensioni con l’Etiopia e il successivo conflitto combattuto tra il 1998 e il 2000 raffreddarono significativamente questo rapporto, e l’isolamento che ne derivò per l’Eritrea spinse il paese a rafforzare il proprio legame con l’Iran. L’avvio del conflitto nello Yemen e la possibilità che l’Eritrea potesse trasformarsi in una piattaforma logistica a sostegno dei ribelli Houthi, tuttavia, portò al deciso intervento dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, con l’apertura di una base aerea e navale di questi ultimi ad Assab e la progressiva atrofizzazione del rapporto con l’Iran.
Sauditi ed emiratini riuscirono anche a favorire la pace con l’Etiopia successivamente alla nomina di Abiy Ahmed alla carica di primo ministro nel 2018, unitamente ad un raffreddamento delle tensioni con gli Stati Uniti, aprendo la porta all’attuale clima di apertura e cooperazione nell’ambito del quale Israele vede ampi spazi per una solida ripresa del proprio rapporto con Asmara.
Resistono a ogni tentativo di normalizzazione con Israele, invece, la Somalia e Gibuti, mantenendo un profilo di autonomia anche dagli stessi attori regionali, come gli Emirati Arabi Uniti, da cui – soprattutto nel caso della Somalia – dipendono fortemente sul piano degli aiuti economici.
Scenario
Il numero degli attori regionali che nel corso dell’ultimo decennio ha normalizzato – o comunque ristabilito – le relazioni politiche, diplomatiche ed economiche con Israele è fortemente aumentato.
Le ragioni di questo mutamento di indirizzo sono molteplici e vanno ricercate soprattutto nel mutamento del contesto politico che ne determinò la crisi negli anni ’70 del XX secolo, nell’incentivo economico connesso alla riapertura, nella forte capacità di persuasione politica ed economica esercitata dagli Stati Uniti e, non ultimo, nella diffusa percezione dell’Iran quale superiore minaccia regionale.
Il riavvicinamento ad Israele, per quanto possa essere stato facilmente percorribile sul piano politico da parte dei paesi della regione, presenta numerose incognite sul piano sociale e della sicurezza, soprattutto con riferimento alla percezione da parte delle frange più radicali dell’islamismo.
Ogni mossa verso il pieno ripristino delle relazioni politiche e diplomatiche verso Israele, quindi, viene gestito nella regione con profonda cautela, nel timore di conseguenze sul piano della stabilità sociale e della possibilità di alimentare i presupposti ideologici di una nuova generazione del jihadismo.
Ciononostante, la capacità politica e militare di Israele nella regione del Mar Rosso e del Corno d’Africa è fortemente aumentata dal 2016 ad oggi, perseguendo il duplice fine di assicurare la stabilità delle rotte commerciali dirette verso i terminali israeliani e contrastare la crescente presenza e capacità militare dell’Iran nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso.
Pubblicato sul blog di Nicola Pedde per L’HuffPost
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