Per Kim Jong un, i lanci di due missili a medio raggio sono “un’arma tattica di nuovo tipo” e “un avvertimento” ai “militari sudcoreani”. Questa settimana la Corea del Nord ha lanciato due nuovi tipi di missili a corto raggio verso il Mar del Giappone. I lanci sono stati confermati da Pyongyang e seguono di un mese, o poco meno, l’ultimo incontro tra il leader della Corea del Nord e il presidente americano Donald Trump. Secondo l’agenzia di Stato nordcoreana, la Kcna, il nuovo tipo di arma è “un sistema sofisticato” e a controllo remoto “difficile da intercettare”.
Il Capo della Casa Bianca a fine giugno è diventato il primo presidente statunitense in carica a mettere piede in Corea del Nord, l’avvenimento è stato salutato come una tappa storica, che avrebbe dato nuova linfa ai negoziati, un’altra prova che tra Kim e Trump ci sarebbe ancora affinità. A distanza di settimane sembra che quell’incotro sia servito a ben poco, nonostante la diplomazia abbia sempre bisogno di segnali come quello che Trump ha dato a Kim e al mondo il mese scorso.
Ad ogni modo, la verità è che entrambe le parti non vogliono abbandonare la strada del dialogo. Lo vuole certamente Kim, che sin da quando ha ereditato il potere nel 2011 ha coltivato il sogno di trasformare il Paese attraverso la spinta economica. Un sogno per il momento non realizzabile a causa delle sanzioni. Questo resta il principale ostacolo a un accordo. Trump sarebbe il più flessibile a un alleggerimento delle sanzioni, alleggerimento che comunque non costituisce al momento alcuna sicurezza di impegno da parte di Kim a denuclearizzare e potrebbe rivelarsi un buco nell’acqua come in passato. Mentre, dal punto di vista nordcoreano, non c’è alcun interesse a impegarsi per la completa denuclearizzazione a fronte delle poche garanzie offerte dagli Usa. Altra osservazione: Trump è andato in Corea del Sud dopo il vertice dei G20 di Ōsaka. Xi Jinping ci era andato subito prima di incontrare il presidente americano in Giappone per poter ottenere da lui il più possibile sul fronte dei dazi. Chi però sembra aver permesso l’incontro di fine giugno tra Kim e Trump in Corea del Nord è il presidente sudcoreano Moon, che continua la sua discreta opera dietro le quinte.
Forse Kim cerca un accordo con Trump ancor più del presidente Usa, che tra poco dovrà concentrarsi quasi unicamente sulla campagna presidenzale. Non si abbandona la diplomazia, nonostante l’idea che la Corea del Nord sta dando sia esattamente opposta. Mancano i toni duri del 2017, Kim lancia missili e avvertimenti, certo rilevanti, ma pur sempre avvertimenti. Poco prima dei test, la propaganda nordcoreana aveva dato in pasto ai media internazionali le foto del dittatore durante un’ispezione ai cantieri navali dove stanno per terminare i lavori a un nuovo sottomarino. Secondo le analisi, l’unità sarebbe in grado di trasportare missili nucleari a testata multipla e non ci sarebbero dubbi sul fatto che il sottomarino rappresenti un ammordemento e un rafforzamento delle capacità militari di Pyongyang. D’altra parte, non ci stavamo cullando nel pensiero che Kim avesse messo da parte il progetto di aumentare le capacità difensive del regime, capacità che servono al dittatore per restre al potere. In questo senso, i programmi missilistico e nucleare continuano ad essere per Kim strumenti di sopravvivenza.
Tutto, comprese le foto del sottomarino, è utile ad alzare la posta con gli Stati Uniti e a pressare la Corea del Sud. I motivi dei moniti vanno cercati come sempre nelle coincidenze e nelle date: il prossimo round di negoziati tra Usa e Corea del Nord, previsto se tutto andrà bene tra un paio di settimane, e l’avvicinarsi delle esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seoul, che Kim avverte come una minaccia. Il lancio dei nuovi missili è certamente un messaggio rivolto a Seoul e contro le manovre militari fissate per agosto. Quelle manovre che Trump aveva invece sospeso dopo il primo vertice a Singapore con Kim, avvenuto ormai più di un anno fa.
I nuovi test, successivi a quelli di maggio e del tutto previsti, non sembrano aver urtato più di tanto gli Stati Uniti, ma a ragione preoccupano gli alleati americani nel Pacifico: Corea del Sud e Giappone, oggi ai ferri corti per ragioni che vanno ricercate nel periodo dell’occupazione nipponica della penisola. Ed è qui che Kim dà prova di destrezza: approfitta delle divisioni tra gli asiatici per apparire più minaccioso. Tuttavia, anche se la porta resta aperta al dialogo, è giusto seguire con apprensione l’evolversi della situazione norcoreana. La massima pressione fallisce con l’Iran come con la Corea del Nord e i nuovi test lo provano. Kim già a Capodanno ha dato una deadline per un accordo con gli Usa: la fine dell’anno 2019.
Termine ultimo per un accorco con gli Stati Uniti. Dopo il fallimento del vertice di Hanoi e a un anno da Singapore, cosa è cambiato? Le due parti si fidano ancor meno l’una dell’altra il programma nucleare non ha subito rallentamenti. Pare inoltre, da un’analisi di The Diplomat, che Pyongyang abbia preferito cercare contatti con Trump attraverso l’intelligence e non atraverso i canali diplomatici ufficiali, vista la resistenza e la poca flessibilità dimostrata dal Consigliere per la sicurezza nazionale Usa Bolton e dal capo della diplomazia Pompeo. All’orizzonte non si prospettano margini di miglioramento. La massima pressione potrebbe costare più ai sudcoreani che agli americani perché un atacco contro Corea del Sud e Giappone è sempre stato lo scenario più plausibile di un folle e autodistruttivo attacco agli Usa. Ma la Corea è abituata ad essere dimenticata e i coreani ad essere le vittime della storia.
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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